Il “Civil Act” di Renzi: il terzo settore molto profit
La gestione della nuova ondata di precarizzazione, dello smantellamento dei servizi pubblici, alla ricerca di nuovo consenso clientelare nella crisi.
Insieme al Job Act, il governo Renzi ha lanciato il Civil Act per una profonda riforma del cosiddetto terzo settore o no profit: con la solita retorica del solidarismo e della sussidiarietà ci si prepara ad un affondo sia dei diritti dei lavoratori, sia dei servizi di welfare pubblici.
L’incentivazione ulteriore dello sviluppo del settore si orienta, infatti, verso la creazione di una occupazione “low cost” con bassi ed incerti salari (anche con utilizzo di lavoro gratuito e volontario) in contesti organizzativi che dovrebbero consentire un maggiore controllo sia normativo sia etico della manodopera.
Un settore che, secondo gli ultimi dati Istat può contare sulla carta su 4,7 milioni di volontari, con 681 mila dipendenti ai quali si sommano 270 mila lavoratori esterni, 5 mila lavoratori temporanei, 19 mila lavoratori distaccati dalle pubbliche amministrazioni, 40 mila religiosi e 19 mila giovani impegnati nell’attuale servizio civile; mentre per i dati economici abbiamo entrate di bilancio pari a 64 miliardi di euro.
Si tratta di un settore che ha già dato prova, grazie alla complicità sindacale e ad una normativa ed una contrattazione collettiva specifica, di poter aggirare le residue tutele del normale lavoro dipendente.
Basti pensare alle specifiche legge sui soci lavoratori che prevedono il “dissociamento” piuttosto che l’ordinaria procedura di licenziamento, oppure le esenzioni dall’applicazione piena dello Statuto dei lavoratori in virtù della natura di “organizzazioni di tendenza” rispetto al diritto di opinione o di critica.
E’ nei settori della cooperazione sociale che abbiamo, per esempio, potuto vedere applicati i CCNL con le previsioni di deroghe aziendali e territoriali, ben prima delle più recenti normative ed accordi interconfederali. Una realtà che, in virtù della “condivisa” missione sociale, ha anticipato sperimentandole diversi modalità di precarietà e di flessibilità che oggi ritroviamo estesi agli altri settori.
Altro vantaggio, non secondario, e che queste misure di precarietà vengono applicate in contesti dove, almeno in teoria, si può selezionare e contenere una mano d’opera più eticamente e politicamente motivata e docile.
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