Intervento del prof. Mario Tiberi al convegno In difesa del Welfare Perchè Previdenza, Sanità e Scuola devono essere pubbliche.
(Sede INPS, Roma, 18 maggio 2016)
“Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica, con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati, favorisca non già il vigore competitivo, ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.
Occorre agire anche nei confronti di coloro che intendono dirigere i risparmi verso le attività finanziarie, mediante un’opera informativa che illustri il carattere ingannevole o fraudolento delle promesse (alle quali essi si trovano esposti) di ingenti guadagni e di rapida moltiplicazione dei loro averi. Se le capacità del pubblico di autoilludersi sono illimitate, l’assenza o l’inadeguatezza di avvertimenti cautelatori, da parte dei responsabili della politica economica, costituirebbero un comportamento inesplicabile, rispetto agli incisivi interventi che essi effettuano in altri campi dell’attività economica”.
Da Federico Caffè : Di un’economia di mercato compatibile con la socializzazione delle sovrastrutture finanziarie, Giornale degli economisti, sett.-ott. 1971.
Ho voluto richiamare questa lunga citazione di Caffè, che tocca un argomento di grande attualità in questo periodo in Italia, per proporvi un esempio della sua lungimiranza intellettuale. Un esempio analogo, infatti, riguarda l’argomento di cui parliamo oggi e non è un caso che Luciano Vasapollo, prima studente e poi cultore di Caffè, mi abbia invitato a parlare del “welfare state”, poiché ricordava un suo lavoro anch’esso anticipatore: In difesa del ” welfare state”, pubblicato nel 1986.
Erano gli anni in cui si faceva sentire la svolta neoliberista nella cultura economica, e non solo, che si esprimeva politicamente nell’accoppiata Reagan-Thatcher e Caffè era lucidamente consapevole che il ridimensionamento del “welfare state”, in forme più o meno incisive, avrebbe costituito un obiettivo caratterizzante tale svolta.
Egli volle dare un suo ulteriore contributo, più accademico , alla battaglia contro tale svolta, nella quale era già impegnato con la sua attività pubblicistica. In difesa del “welfare state“ era una raccolta di suoi saggi precedenti, arricchita da un’introduzione, da me sempre considerata il suo testamento spirituale, poiché egli si allontanò, mai più rintracciato, nell’aprile del 1987.
Uno dei passaggi più significativi di tale introduzione è il seguente, pressoché testuale:
“La fedeltà ai “punti fermi” di una concezione economico-sociale progressista si manifesta con l’insistere su una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del benessere; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica” (ivi, pp.7-8).
Ancora una volta Caffè ripropone il criterio dell’equità dei sistemi economici, affiancato senza alcuna subordinazione valoriale al criterio dell’efficienza: posizione intellettuale che ha contraddistinto il lavoro teorico di gran parte degli studiosi dell’”economia del benessere”, a cominciare da Pigou, oltre quello pratico dei sostenitori del “welfare state”.
Ecco delinearsi, dunque, uno dei punti di contrapposizione culturale al neoliberismo, che riproponeva la visione ottimistica sulla capacità dei meccanismi di mercato di garantire l’impiego ottimale delle risorse, cioè l’efficienza dei sistemi economici.
Non è questa la sede per ricordare quanto la teoria economica abbia inesorabilmente incrinato tale visione, elaborando raffinate analisi sui cosiddetti “fallimenti del mercato”; è opportuno, invece, soffermarsi a ricordare i messaggi essenziali, proposti e riproposti, dai fautori del neoliberismo, anche sulla questione dell’equità.
Ricordiamo le ricette fondamentali del neoliberismo, etichettato anche come “Washington Consensus” per il ruolo determinante del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e del Ministero del Tesoro degli Stati Uniti, istituzioni con sede in quella città: privatizzazioni; libertà dei movimenti di capitale, merci e servizi (e delle persone?), politica monetaria cauta; bilancio in pareggio; razionalizzazione dello “stato sociale”; ridimensionamento della presenza sindacale, ecc. Razionalizzazione, appunto, dello “stato sociale”, che magari è un eufemismo rispetto a chi parla apertamente di riduzione, ridimensionamento dello “stato sociale”, cioè di quel complesso di misure attraverso le quali i sistemi capitalistici hanno introdotto dei correttivi egualitari all’operato del mercato.
Il filo conduttore che collegava efficienza ed equità nell’impostazione neoliberista era l’idea dello “sgocciolamento”, secondo il quale l’attività economica è centrata soprattutto sull’operare spontaneo delle forze di mercato; esso può determinare un rilevante aumento del reddito prodotto, la cui fetta maggiore andrà certamente a chi ha più potere sul mercato ma qualcosa si riverserà, “sgocciolerà”, appunto, anche a favore delle fasce più povere.
Il meccanismo non va inceppato, ricercando una maggiore equità con interventi redistributivi, che possono pregiudicare l’obiettivo dell’efficienza.
La crescita, per le fasce più povere, offre, invero, l’opportunità di stare meglio, magari di uscire dall’indigenza; ma ciò non comporta necessariamente una maggiore equità interpersonale del sistema.
Un esempio evidente, offerto dall’esperienza, è la Cina, che ha lasciato largo spazio all’operare del mercato, realizzando alti tassi di crescita del reddito, che hanno consentito di fare uscire milioni di persone da condizioni di povertà ma, allo stesso tempo, hanno accentuato le diseguaglianze nella popolazione.
Allo stesso tempo, esiste ormai un’evidenza convincente su come le diseguaglianze siano cresciute negli ultimi anni, in quasi tutti i Paesi avanzati.
Ritengo utile, a questo punto, ricordare alcune vicende storiche, che sono in qualche modo associate al “welfare state”, perché possono aiutare la comprensione di quanto dirò nella parte finale del mio intervento.
Al riguardo merita una citazione Otto von Bismarck, il quale, come Cancelliere di Prussia, fra il 1883 ed il 1889, fece approvare alcune misure sociali con le quali intese alleviare le condizioni dei lavoratori sottoposti alla pressione delle imprese in una fase di intensa espansione economica:
1) legge sull’assicurazione contro le malattie (1883)
2) legge sull’assicurazione contro gli infortuni (1884)
3) legge sull’assicurazione per l’invalidità e vecchiaia (1890).
Altrettanto importante, anzi forse più importante, è stata l’esperienza del Presidente democratico degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, giunto al potere nel 1933, che attuò la sua ben politica interventista del “New Deal”, della quale mi piace di sottolineare, sul piano politico, la grande apertura rispetto al mondo del lavoro, organizzazioni sindacali comprese.
Restando nell’ambito più specifico del “welfare state”, sono numerosi i provvedimenti inclusivi, seppure insufficienti a costruire una solida esperienza di “welfare state” negli Stati Uniti:
1) sostegno e promozione dell’occupazione
2) indennizzo della disoccupazione
3) assicurazione contro i rischi di invalidità, vecchiaia e superstiti
4) misure per i disabili
5) assegni familiari
Storicamente più significativa è l’esperienza della Svezia, che ha influenzato l’insieme dei Paesi scandinavi. Protagonista politico è stato, soprattutto negli anni trenta, il Partito svedese dei lavoratori, che ha voluto dare una forte identità universalistica al “welfare state” di quel Paese, manifestatasi sin dal 1915 con le pensioni popolari. Prima della crisi degli anni trenta c’erano stati precedenti tentativi di intesa interclassista, sollecitata a volte dagli stessi datori di lavoro.
Non si possono negare i contenuti positivi, anche per il mondo del lavoro svedese, emersi nel corso del tempo; il punto certamente controverso di quel percorso può ritrovarsi nella formula sintetica con cui esso è stato descritto: “capitalismo nella produzione e socialismo nella distribuzione”.
Si tratta forse dell’esempio più importante del cosiddetto “compromesso socialdemocratico”; in effetti la rivendicazione di gestione programmata del Partito dei lavoratori non si è tradotta in un superamento di quella formula, anzi non sono mancati periodi nei quali l’indubbia onerosità dell’impostazione universalistica ha provocato momenti di arretramento delle prestazioni previste dal “welfare state”.
Questa breve panoramica storica intende dare il rilievo, che ritengo doveroso, al ruolo svolto anche dalla Gran Bretagna, non solo per le realizzazioni concrete in tema di “welfare state”, ma per l’impatto culturale esercitato dagli intellettuali di quel Paese, non solo in Europa.
Mi piace ricordare, tra tutti, William H. Beveridge, coautore di due Report legati al suo nome, che rappresentano contributi importanti espressi dal mondo progressista anglosassone, anche quando a scrivere, come era il caso di Beveridge, fosse un uomo di formazione liberale, influenzato dallo straordinario lavoro di John Maynard Keynes.
I due Report intendevano essere una risposta esplicita al “male di vivere” perché “la miseria genera odio”, come si poteva leggere sul frontespizio del secondo Report; il “male”, anzi i “mali giganteschi” sono specificati: bisogno, inattività, malattie, ignoranza, miseria.
Le indicazioni erano ambiziose perché erano rivolte anche al di là dei confini della Gran Bretagna; si parlava, infatti, di “piena occupazione in una società libera” .
Ritroviamo in esse i pilastri essenziali della sicurezza sociale:
1) un sistema generalizzato di sanità e riabilitazione
2) assegni familiari
3) mantenimento dell’occupazione.
A proposito dell’occupazione è netta l’ispirazione keynesiana , quando si legge nel Report che “il primo e necessario contributo che ogni grande paese industriale dovrebbe dare è adottare per se stesso una politica di pieno impiego e di attività stabile”. E non mancano suggerimenti fecondi rispetto al fallimento macroeconomico del mercato in merito all’occupazione, perché non si esplicita soltanto la funzione essenziale del livello della domanda ai fini del pieno impiego, ma emerge la consapevolezza di quanto i governi possano fare per tale obiettivo, anche dal lato dell’offerta, con le esemplificazioni proposte della “localizzazione controllata dell’industria” e “della mobilità organizzata del lavoro”.
Una misura dell’impatto avuto dal Report, almeno in Gran Bretagna, si trova in un passaggio del White paper on employment policy, pubblicato per iniziativa del primo governo di coalizione negli ultimi anni della seconda guerra mondiale : ”il governo accetta come uno dei suoi obiettivi e doveri primari il mantenimento di un alto e stabile livello di occupazione dopo la guerra”!
Senza indugiare ulteriormente nella esposizione delle robuste radici culturali e politiche riguardanti il “welfare state” , possiamo con buone ragioni considerarlo come efficace risorsa di promozione sociale e cittadinanza, ma anche come strumento anticiclico e di sviluppo rispetto all’intrinseca instabilità del capitalismo.
Pur nella consapevolezza che, come lucidamente troviamo scritto nel Rapporto sullo stato sociale 2015, curato da Felice Roberto Pizzuti, “le politiche di consolidamento dei bilanci pubblici hanno indebolito i sistemi di welfare proprio nel momento di loro maggiore utilità; in particolare, le privatizzazioni collegando le prestazioni sociali alle prestazioni dei mercati, ne hanno cambiato gli effetti in senso prociclico; la lotta alle diseguaglianze è scomparsa dall’agenda delle istituzioni comunitarie”.
Si ripropone con forte evidenza, a mio avviso, il compito del sindacato, e più in generale del movimento operaio, inteso a modificare “la distribuzione del reddito, della ricchezza, del potere nell’economia e nella società”; quindi, a combattere le diseguaglianze insite nel meccanismo dello “sgocciolamento”.
Dunque democrazia politica, democrazia sociale e democrazia economica sono strettamente connesse tra di loro; un intreccio, meritevole di un approfondimento che va al di là delle mie capacità e del contesto in cui si colloca questo incontro. Desidero soltanto spezzare una lancia, in questa occasione come in altre in cui mi sono trovato recentemente, per ribadire con forza la mia convinzione che il tema specifico della democrazia economica vada rilanciato al più presto dallo schieramento progressista del nostro Paese, e non solo. Non cogliere l’importanza di tale terreno di iniziativa culturale e politica ci espone ancora una volta al rischio di dover inseguire quanto i ceti dominanti ci propongono con le varie formule di “responsabilità sociale dell’impresa” o di partecipazioni subordinate alla proprietà azionaria o agli utili delle imprese.
Sul terreno specifico del “welfare state” si può affrontare la battaglia, rispetto al mercato, anche sul terreno dell’efficienza (istruzione, sanità, pensioni, lavoro di cittadinanza…), oltre che su quello dell’equità. Entrando nel merito, con grande lucidità, di fronte ad ogni misura che viene suggerita per modificare gli assetti del “welfare state”.
Riprendo, di seguito, alcuni esempi tratti dal manuale Politica economica e strategie aziendali di Nicola Acocella per un richiamo alla loro valutazione attenta perché, in qualche caso, la difesa rigorosa del “welfare state” non è in contrasto con l’accettazione di ritocchi migliorativi di alcuni suoi pezzi:
1) sostituzione dei contributi sociali con imposte sul reddito o sul valore aggiunto
2 )adozione di sistemi di workfare, ossia di erogazione di trasferimenti condizionata dalla esistenza o dalla accettazione di una condizione di lavoro
3) riduzione della durata del sussidio di disoccupazione e la sua trasformazione in sussidio all’occupazione dopo un certo periodo di tempo
4) accertamento dell’effettivo stato degli aspiranti all’intervento (means-testing)
5) per limitare l’erogazione ai casi di effettivo bisogno
6) earmarking, ovvero la destinazione specifica a certe voci di spesa di fondi ottenuti con alcune imposte o contributi
7) opting out, ovvero la possibilità di rinuncia a qualche beneficio dello stato sociale, ottenendo la restituzione di parte dell’imposizione.
Prima di chiudere questo intervento desidero anche dare uno spazio marginale alla mia caratteristica, forse ingenua ma convinta, di cogliere qua e là i segnali positivi rispetto alla fondamentale esigenza di organizzare le alleanze necessarie, almeno sul terreno culturale.
Mi piace allora cominciare dalla citazione più antica di John Stuart Mill che scriveva, nel 1873: “Se si dovesse scegliere tra il comunismo con tutti i suoi rischi e lo stato della società con tutte le sue sofferenze ed ingiustizie; se l’istituzione della proprietà privata necessariamente portasse con sé la conseguenza di una ripartizione del prodotto del lavoro , qual é quella che vediamo oggigiorno – le porzioni maggiori a coloro che non hanno mai lavorato, quelle di poco più piccole a coloro il cui lavoro è soltanto nominale , e così di seguito in una scala decrescente nella quale la remunerazione diminuisce a mano a mano che il lavoro diventa più duro e più spiacevole, sinché il più faticoso e estenuante lavoro manuale non può sicuramente contare di guadagnare nemmeno quanto è necessario alla vita; se questo o il comunismo fosse l’alternativa, tutte le difficoltà grandi e piccole, del comunismo non sarebbero che granelli di polvere nella bilancia”.
Più sintetica ma non meno efficace è la diagnosi propostaci da Keynes nel 1936: “ I difetti evidenti della società economica nella quale viviamo sono il suo fallimento nell’assicurare la piena occupazione e la sua arbitraria e iniqua distribuzione della ricchezza e dei redditi” .
La radicalità intellettuale, contenuta nel Beveridge Report del 1944, va anche al di là del suo ispiratore Keynes: “…la piena occupazione è di fatto raggiungibile lasciando in generale la conduzione dell’industria all’impresa privata, e le proposte fatte nel rapporto sono basate su questo punto di vista. Ma se, contrariamente a tale punto di vista, dovesse essere dimostrato con l’esperienza o con le argomentazioni che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione fosse necessaria per la piena occupazione, tale abolizione dovrebbe essere intrapresa”.
Di grande interesse riguardo al nesso efficienza-equità, è, inoltre, la seguente affermazione contenuta in un importante Report della World Bank, che abbiamo poco fa ricordato essere stata uno dei baluardi del “Washington Consensus”: “... un’estesa condivisione delle opportunità economiche e politiche è anche strumentale rispetto alla crescita e allo sviluppo economico. Ciò è per ragioni economiche, perché una maggiore equità può condurre ad un più ampio ed efficiente utilizzo delle risorse di una nazione” (2005).
A completamento di questa breve raccolta di citazioni “confortanti” non possono mancare un paio di frasi tratte dall’enciclica Laudato sì di Papa Francesco:
“La Chiesa difende sì il legittimo diritto alla proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato (ripresa da Giovanni Paolo II).
“Con il loro comportamento (alcuni) affermano che l’obiettivo della massimizzazione dei profitti è sufficiente. Il mercato da solo però non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale”.
Riportando queste citazioni ho consapevolmente seguito l’insegnamento di Caffè, il quale cercava spesso conforto, durante nel suo percorso di “riformista solitario”, in quanto scaturisse dovunque dal pensiero umano; usando le sue parole “ dobbiamo mantenere la fiducia sulla possibilità di costruire una civiltà possibile, perseguendo lo sforzo di attenuazione delle molteplici forme di emarginazione sociale degli esseri umani”. E allora: “L’enfasi è da porre più sugli immensi vuoti da colmare che sui limitati eccessi da eliminare nell’operato dello “stato sociale” per cercare di realizzare quel tanto di socialismo che appare realizzabile nel contesto del capitalismo conflittuale con il quale è tuttora necessario convivere” .
Mario Tiberi