La turistificazione della città globale. Il caso di Roma - di Simone Bruscolotti, Mauro Luongo e Alessandro Perri

Premessa

 

L’Introduzione e i capitoli 1-5 sono stati scritti e ultimati nel febbraio del 2020. L’arrivo della pandemia anche nel continente europeo ci aveva indotto a sospendere la pubblicazione del testo, credendo (come si vedrà, erroneamente) che l’importanza della questione “turismo-turistificazione” sarebbe stata messa in secondo piano dalla crisi sanitaria, sociale ed economica – nel momento in cui scriviamo, straripata anche sul piano politico – che da lì a pochi giorni avrebbe colpito il paese.

Ma così non è stato, anzi. La fragilità del settore turistico palesata nel corso di questi mesi ha, crediamo, aggiunto valore alla tesi proposta nelle pagine di seguito, quella secondo cui ogni ipotesi di sviluppo sociale ed economico di un paese “a capitalismo maturo” fondato sul comparto del turismo è un’ipotesi, a dispetto di una certa vulgata, destinata al fallimento e all’aumento delle diseguaglianze.

Per il nostro interesse scientifico ovviamente il problema qui non è la qualità dell’informazione mainstream disponibile nel nostro territorio, anch’essa fortemente inserita nel processo di ristrutturazione della catena del valore e sussunta sotto determinati interessi particolari. Semmai, consci della difficoltà di instaurare un dibattito che sia sufficientemente critico nei confronti di un dato argomento, volevamo squarciare il “velo di Maya” che da molti anni (se non decenni) a questa parte ricopre lo smantellamento del tessuto produttivo del paese e l’impoverimento, la precarizzazione e l’emigrazione forzata della forza-lavoro, su cui – senza nessuna velleità di esaurimento dell’analisi – la narrazione sul turismo in quanto “petrolio d’Italia” svolge un ruolo importante.

Questo non significa affermare che il turismo non sia un settore di rilievo, perché andrebbe direttamente contro l’analisi empirica presente anche in questo lavoro, bensì che non può essere considerato un settore strategico, specialmente se lasciato alla mano ben visibile della rendita, della speculazione e del profitto privato. Noi crediamo che la pandemia abbia confermato tutto questo e le argomentazioni che seguono si trovano nei capitoli che seguono con l’aggiunta del capitolo 6, scritto successivamente e su cui proponiamo alcune brevi considerazioni aggiuntive alla luce di alcuni dati disponibili dopo circa un anno di Covid-19 e su cui ci riserviamo futuri aggiornamenti.

 

Se l’intero scritto è frutto della riflessione collettiva dei tre autori, a Simone è dovuta la stesura del capitolo 2, a Mauro dei capitoli 3 e 5, e ad Alessandro dei capitoli 1 e 4.

 

Roma, 10 febbraio 2021

 

Introduzione

 

La retorica che ha accompagnato i fautori della seconda mondializzazione ha sempre sostenuto che con l’ampliarsi dello spazio interessato dall’integrazione delle attività politico-economiche e col ridursi del tempo necessario per coprire quello stesso spazio, i luoghi fisici avessero perso di rilevanza.

Tuttavia, questo argomento obliterava il fatto che l’oggetto di studio dell’economia, sia essa “globalizzata” o meno ha sempre bisogno di appunto un luogo fisico dove poter essere ideato, prodotto, scambiato e anche valutato.[1] La messa in connessione del numero – cresciuto in pochi decenni a dismisura – dei luoghi protagonisti nella dinamica dello scambio mondiale allora ha “solo” cambiato funzione a quei luoghi, ridisegnandone l’aspetto, la gerarchia e la mission su cui basare il rispettivo sviluppo.

Questo lavoro si inserisce proprio in questa consapevolezza, e cioè che lo sviluppo delle contraddizioni del Modo di produzione capitalistico (Mpc) possono essere comprese solo a partire dalle particolari forme in cui queste si “fissano” nei luoghi, ossia le città.

Nella città globale in cui si afferma la centralità del capitale finanziario multinazionale nei processi di mercificazione del territorio, il primato degli interessi privati nella gestione dei servizi pubblici, il ruolo e le relazioni con il nucleo dominante europeo, il “magnate franco-tedesco”; tutti elementi che nel nostro territorio, come altrove, modificano e ristrutturano strategicamente le città.

In questo contributo l’obiettivo è quello di andare a fondo su un tema specifico di questo riassetto generlae: quello della turistificazione della città, inserito nella prospettiva storica che ha caratterizzato la Roma più o meno dell’ultimo trentennio, convinti che questo campo d’indagine sia oggi ineludibile per la comprensione del significato profondo delle politiche pubbliche proposte, o mancate, dalle più recenti amministrazioni, di tutti i colori.

Dopo un primo capitolo generale attorno al dibattito sul valore economico del settore turistico, il testo prosegue delineando la storia della turistificazione di Roma, imperniata soprattutto nel “Modello Roma”, e cosa questo ai giorni nostri significhi sia per i movimenti di capitali, sia per il mercato del lavoro; o in altre parole, per il modello sociale che emerge dalla turistificazione della città.

 

 

 

 

1. Il ruolo sociale e il valore economico del settore del turismo

 

Un occasional paper pubblicato per la Banca d’Italia nell’ottobre del 2019 intitolato Tourism and local growth in Italy (Turismo e crescita locale in Italia), analizza il rapporto, per stessa ammissione degli autori, tuttora controverso tra il turismo e la crescita economica. Le conclusioni del lavoro sono in controtendenza rispetto a un certo tipo di narrazione che sembra dominare la visione sull’impatto dell’industria turistica sull’economia di una data regione economica:

Dov’è più alta la disoccupazione, l'impatto del turismo è più forte, ma nelle altre aree può anche contrastare la crescita del Pil pro capite, poiché incoraggia le attività e l’occupazione con produttività inferiore. Nel complesso, possiamo concludere che l’impatto del turismo sullo sviluppo locale è importante per alcune aree territoriali, ma non dovrebbe essere enfatizzato. Le politiche del turismo dovrebbero tener conto sia dell'eterogeneità dell’effetto tra le province, sia dei potenziali costi di congestione in alcune aree che sono già altamente specializzate nel turismo.[2]

In sintesi, lungi dal poter essere il «petrolio di un paese»,[3] il turismo è una risorsa che può giocare un ruolo anche importante nelle aree economicamente meno sviluppate di un territorio, ma per la cittadinanza potrebbe avere effetti addirittura deleteri, in termini sia di lavoro[4] che di abitabilità, quando in contesti “capitalisticamente maturi” il suo peso venisse sovrastimato. Innestate queste poche righe nel contesto romano e avrete la linea guida delle pagine successive: finché a Roma si parlerà solo di turismo, la città non vedrà riequilibrare le forti diseguaglianze che oggi colpiscono gli abitanti dei suoi territori.

 

Lo stato dell’arte in Italia

Con 54 dei 1.092 siti Unesco, l’Italia è il primo paese al mondo per luoghi registrati come patrimonio dell’umanità. Secondo l’ultima pubblicazione del “Conto satellite del turismo” (Cst, strumento statistico usato a livello internazionale per rappresentare il fenomeno del turismo, pubblicato in Italia dall’Istat), nel 2015 le attività legate al turismo producevano un valore aggiunto di 88 miliardi, circa il 5,9% del totale nazionale, e valevano il 6,5% degli occupati del paese (al tempo, 1,5 milioni di lavoratori e lavoratrici).

Se a questi dati aggiungiamo gli effetti indiretti[5] e indotti,[6] il “World trade and tourism council” (Wttc) stima che nel 2017 l’impatto complessivo del turismo sul nostro paese è stato pari al 13% del Pil e al 15% dell’occupazione (quasi 3,4 milioni di posti di lavoro), valori che entrambi si piazzano al di sopra della media sia Ue che mondiale.

Sempre nel 2017, la quota di mercato italiana dell’industria turistica globale si attestava al 3,4%, dato in diminuzione rispetto al 7% dei primi anni Novanta – calo fisiologico dovuto all’espansione relativa della spesa turistica mondiale nei paesi emergenti –, ma in ripresa nell’ultimo decennio, sia a causa delle tensioni geopolitiche che hanno scoraggiato i flussi verso alcuni paesi concorrenti percepiti a più alto rischio di attacchi terroristici (si pensi alla Francia o al bacino sud del Mediterraneo), sia, scrive di nuovo la Banca d’Italia, da un miglioramento della competitività di prezzo.[7]

A dispetto dei numeri importanti, c’è poco oro in questo quadro, e quello che c’è di sicuro non è appannaggio del campo del Lavoro. Grattando leggermente la patina che lo ricopre, troviamo infatti che i settori trainanti della spesa turistica, sia nazionale che estera, sono i servizi di alloggio associati alle seconde case (30,8%), il comparto alberghiero (16,7%), della ristorazione (8%), del commercio al dettaglio (6,1%) e dei trasporti (6%). Inoltre, in una economia accusata di scarsa produttività per ogni unità di lavoro impiegata[8] e in assenza di investimenti in ricerca e sviluppo significativi,[9] la «competitività di prezzo» si traduce con la riduzione del costo del lavoro, ossia con l’abbassamento del salario che permette la vendita di un bene o di un servizio a un prezzo più concorrenziale. E infatti non sono forse i camerieri, i rider, i commessi, i facchini, gli impiegati della pulizia, ecc. le figure meno tutelate e peggio pagate del paese? Eppure, in maggioranza sono proprio queste le occupazioni che il turismo di massa “dona” alla comunità.

Quali i riflessi sul lungo termine? È la stessa Banca d’Italia a dover dare spazio ai critici del processo di turistificazione incontrollato, o per meglio dire, “guidato dal mercato”, ammettendo che tale industria i) sviluppa «impiego a bassa produttività e contenuta qualità di capitale umano», ii) sottrae risorse al comparto «manifatturiero o dai servizi a più alta tecnologia»,[10] e iii) potrebbe innescare «effetti inflattivi nel mercato immobiliare», specialmente nella «fascia periferica della città» quando la spesa confluisce in occasione dei “grandi eventi”, «come nel caso del Giubileo del 2000». Inoltre, «un elevato afflusso di visitatori dall’esterno si può tradurre in fenomeni di congestione e degrado, rendendo difficile la stessa gestione e tutela dei beni culturali e del territorio». Il contrappeso in questa bilancia è rappresentato dal guadagno di «efficienza delle imprese locali,[11] che nella lingua dei lavoratori significa la riduzione dell’occupazione o del salario.

Tuttavia, il 6% del Pil è una somma importante, quasi un terzo della spesa pensionistica annuale del 2019, più di quattro volte il gettito generato dall’Imu-Tasi nello stesso anno. Ma come si evince dai comparti trainanti elencati poco sopra, di ritorno finanziario per il “pubblico” ce n’è ben poco. Contrariamente a quanto afferma il senso comune, il valore aggiunto generato dai servizi culturali rappresenta invero solo lo 0,8% del totale di spesa generata, ossia uno 0,1% in meno del trasporto aereo, un decimo della ristorazione, un po’ meno di un ottavo del commercio e addirittura inferiore a quello riconducibile alle agenzie di viaggio e agli operatori turistici, che segnano il 2%. In parole povere, il Colosseo perde contro pizza, Booking, Zara e pure Ryanair.

 

Turistificazione, una prima definizione

Quanto appena detto ci permette di sistematizzare un’altra considerazione molto importante, di carattere prettamente teorico. Abbiamo detto che l’Italia detiene il più grande patrimonio artistico-naturale del mondo (seppur con percentuali decimali) e che, a dispetto di una cronica incapacità di sfruttare appieno questo patrimonio rispetto alla concorrenza,[12] il suo apporto al settore non può rappresentare il traino dell’industria turistica e dell’indotto a essa collegato. Questo aspetto è confermato da un altro dato rilasciato dal Cst, e cioè che solo il 9,9% della quota dei servizi culturali sono “prodotti” per essere destinati alla domanda turistica. Ma se non sono la natura, i quadri o i monumenti a muovere i più di mille miliardi di euro che annualmente mette in circolo il turismo al livello internazionale,[13] che cos’è?

Ancora un piccolo passo: nel 2017, in Italia gli arrivi complessivi di turisti, sia provenienti dall’estero, sia da altre regioni del paese, ha superato le 123 milioni di unità, generando un incremento del 53,9% rispetto al 2000 e un numero di presenze (notti trascorse nelle strutture ricettive) oltre i 420 milioni. Quasi la metà di questi provengono dall’estero, la maggior parte da Germania, Francia, Regno unito, Stati uniti, Olanda e Svizzera (tutte tra il 5 e il 6,5 per cento della quota totale, tranne la Germania che tocca il 28,2%). Per quanto riguarda il mercato interno, un turista su tre proviene dalle regioni del Nord-ovest, ma nonostante la presenza di Milano, questa è l’area del paese meno frequentata (17,5% del totale delle presenze), più che doppiata dal Nord-est (40%, trainata dagli arrivi tedeschi) e battuta sia dal Centro (22,9%, guidato soprattutto da Roma e Firenze) che dal Mezzogiorno, il quale nonostante possegga più dell’83% delle coste italiane, si ferma al 19,7% della quota totale.

Su scala globale, per le sole provenienze dall’estero, nel 2017 la “United Nations World Tourism Organization” (Unwto, Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni unite) riporta che le prime cinque posizioni sono occupate, nell’ordine, da Francia (86,9 milioni), Spagna (81,8 mln), Usa (76,9 mln), Cina (60,7 mln) e Italia (58,3 mln). Dove si spende di più – dati al 2013, in miliardi di dollari – è negli Stati Uniti (126 mld), poi in Francia, Spagna, Cina e nella regione autonoma di Macao. Chi spende di più sono invece i turisti cinesi (128 miliardi di dollari annui, erano appena 13 a inizio millennio), seguiti da statunitensi e tedeschi (entrambi attorno agli 85 miliardi).

E per quanto riguarda le città? In base ai dati raccolti dal “Global Destination City Index” elaborato da Mastercard, al 2019 le destinazioni con i maggiori arrivi (quindi non presenze, ma neanche scali temporanei) internazionali sono state Bangkok (22,7 milioni di registrazioni), Parigi (19,1), Londra (19), Dubai (15,9) e Singapore (14,6) – solo settima New York con 13,6 milioni di teste, appena un milione in più della turca Antalya, “Grande mela” che però risente del mancato conteggio degli spostamenti interni dei connazionali nordamericani. Sedicesima Milano con 9,2 milioni di arrivi, unica italiana nella top 20.

La città con il più alto afflusso di denaro proveniente da consumatori oltreconfine è invece Dubai (30 miliardi di dollari Usa nell’anno, con una media di 553$ di spesa media giornaliera pro capite), seguita da La Mecca, Bangkok (20 miliardi ciascuna, rispettivamente con 135 e 184 dollari incassati di media al giorno per turista), Singapore e Londra (ambedue attorno ai 16,5 miliardi, con Singapore che doppia Londra, 274 a 148, per dollari spesi in media al giorno), mentre Milano qui esce dalla classifica delle 20 migliori performance.

Nell’ultimo documento rilasciato dall’Istat sul “Movimento turistico in Italia” nel novembre del 2019 (dati 2018), è Roma invece ad aggiudicarsi la prima posizione come città italiana per presenze turistiche, 29 milioni di pernottamenti nell’anno contro i 12,1 milioni di Milano e Venezia, le più dirette inseguitrici, assorbendo il 9,4% del totale della clientela straniera e il 6,8% del totale nazionale. Questi dati sono in linea con quanto pubblicato dal Comune di Roma su tutta la provincia ne “Il turismo a Roma nel 2017”, ossia 27,7 milioni di presenze e 11,8 di arrivi distribuiti sugli oltre 12.800 esercizi ricettivi presenti sul territorio, ma inferiori rispetto a quelli pubblicati dall’“Ente bilaterale del turismo del Lazio” (Ebtl), che conteggia 15,3 e 34,8 milioni gli arrivi-presenze nel 2018. A dispetto di questa enorme distanza, la mancanza di Roma dalla classifica Mastercard è legata alla metodologia di costruzione dell’indice: questo infatti non si basa sulle transazioni legate al proprio circuito, ma è costruito sull’incrocio tra i dati pubblici degli arrivi dai paesi esteri (il Comune di Roma ha registrato 8,5 milioni di arrivi nel 2017) e sul loro regime di spesa. Così facendo, l’indice privilegia il turismo transnazionale, anche di brevissima durata (i dati Mastercard sono overnight, ossia teste che fanno il check-in per intendersi), connesso soprattutto al mondo degli affari, decisamente alto spendente.[14]

Cosa ci dice questa faticosa carrellata di dati? Che la turistificazione, nell’era della seconda globalizzazione, lungi dall’essere oramai la categoria che individua un’attività alternativa al periodo di lavoro, offre invece un riflesso della circolazione delle persone, ma non solo, legate alla fase più alta del ciclo produttivo del modo di produzione capitalistico.

Dando un’occhiata ai nomi elencati nei paragrafi precedenti, non troviamo destinazioni esotiche, spiagge da sogno o trekking mozzafiato, ma perlopiù centri finanziari, paesi a “capitalismo maturo”, paradisi fiscali, giganti commerciali, luoghi all’avanguardia per infrastrutture e sviluppo tecnologico, nodi geopoliticamente strategici dove si concentrano grandi quantità di ricchezza e per-forza-di-cose forti diseguaglianze.[15]

Certo, Parigi come Londra sono anche dei centri con una grande attività culturale, fatta di concerti, mostre, eventi, accademie, dibattiti, ma come abbiamo scritto in precedenza, in termini economici non sono i servizi culturali, né evidentemente le meraviglie naturalistiche, a muovere direttamente il grosso della spesa “fuori casa”. Per dirla in maniera un po’ brusca, Parigi senza il Louvre (esempio di ambito culturale) potrebbe assomigliare a Singapore (sempre nei primi cinque per numero di arrivi), ma Parigi senza l’alta finanza, la moda o la metro (esempi di ambito finanziario, economico e infrastrutturale) sarebbe simile a Roma, fuori dalla classifica delle migliori.

Possiamo dunque affermare che per spiegare la porzione di realtà che ci troviamo davanti, il concetto di turismo va ampliato, o meglio riempito, con due contenuti: da una parte, il turismo “classico”, quello legato alle ferie dal lavoro e alla stagionalità; dall’altra, quello per lavoro, connesso alle attività soprattutto finanziarie e alle funzioni cognitive (lavoro mentale, secondo la definizione di Carchedi)[16] delle catene globali di produzione del valore.[17] Ma che ne dica Federturismo della Confindustria, a dispetto del rimarchevole valore tra giro d’affari diretto, indiretto e indotto, nessuno dei due può essere un elemento strategico per un’economia,[18] soprattutto se questa è già a un certo stadio di “maturità”, perché preso in sé l’aumento statistico della mobilità delle persone e del relativo portafoglio di spesa non è un elemento di sviluppo in grado di rappresentare un vantaggio competitivo. Capitalisticamente parlando, investire nel turismo di massa non permette a nessuna regione politico-economica di scalare le posizioni lungo la catena di produzione del valore.[19]

Semmai, l’espansione del fatturato a esso riconducibile può essere funzione dello sviluppo di un’economia tout court. Infatti, la condizione necessaria perché un luogo sia nel gruppo di testa delle statistiche internazionali sulla mobilità delle persone, ossia ciò che in fondo tiene insieme il turismo classico e quello per motivi di lavoro, è il potenziamento delle capacità infrastrutturali e tecnologiche e (sempre più) la “semplificazione” del regime fiscale: solo così, in ossequio al dogma del profitto, si è in grado di creare le condizioni affinché un proprietario di capitale possa vedere remunerato il suo investimento. In sintesi, è l’offerta che rende una città, una regione o un paese, una meta ambita dal consumatore dinamico (travel detailer) del XXI secolo, non il suo patrimonio storico-naturale. Come a dire, follow the money, perché anche il denaro, “merce speciale”, segue il denaro.[20]

Come mai allora tutta questa enfasi sul “turismo”? Una risposta può essere che agitare le proprietà della mobilità sia uno specchietto per le allodole volto a obliare alcuni concetti che avrebbero maggiori difficoltà se chiamati con il loro nome. Ferrovie, autostrade, antenne, pipeline, deregolamentazione fiscale, aeroporti, valichi ecc., sono tutti elementi che negli attuali rapporti di produzione significano maggiori possibilità per il Capitale di compiere il suo ciclo di auto valorizzazione, ciclo a cui l’essere umano partecipa come elemento essenziale e sopra il quale il concetto di Turismo sembra fornire una rappresentazione di massima della sua capacità di circolazione. “Farlo per il turismo”,[21] ammantandolo con retorica universalistica e di fratellanza, è un aiuto che rende più digeribile la dura realtà del modo di produzione capitalistico: non c’è profitto senza sfruttamento, di ambiente o essere umano che sia.

Così ribaltato, il punto di vista del testo citato in apertura del capitolo assume il valore, a dispetto della volontà di Bankitalia, di un monito contro il “mantra sviluppista” del Mpc.[22]

 

 

 

 

 

 

2. La città dell’arte e degli eventi: “splendori” e miserie della turistificazione di Roma

 

Roma capitale da sempre. Roma capitale due volte

Tra tutte le metropoli globali Roma possiede delle peculiarità che la rendono unica, due sono le principali: avere un patrimonio artistico e archeologico unico al mondo per quantità, qualità e varietà; essere capitale di uno stato nazionale e contemporaneamente capitale globale della cristianità. Capitale globale in senso spirituale e immateriale, eterna e a vocazione universale, ma al tempo stesso capitale post-coloniale di uno Stato-nazione nato a seguito di una conquista militare. «Roma è l’unica capitale mediorientale priva di un quartiere europeo» diceva Francesco Saverio Nitti nei primi del Novecento.

Queste due peculiarità hanno condizionato l’evoluzione della sua struttura economica fino ai giorni nostri. Obiettivo di questa introduzione è ripercorrere le tappe di questo processo seguendo il sottile filo rosso della continuità. L’oggetto è la tendenza tipicamente romana alla valorizzazione del territorio, da principio attraverso l’edilizia, successivamente attraverso la turistificazione.

 

Un’industrializzazione marginale, ma non troppo

Come dicevamo prima Roma è due volte capitale, e questo ha comportato la funzione privilegiata di essere la sede della pubblica amministrazione e degli enti nazionali, nonché delle strutture di comando vaticane. Una capitale non poteva fare a meno di avere un comparto produttivo, seppur limitato, e questo risentì della grande spinta verso l’industrializzazione di tipo fordista che si registrò tra gli anni ‘50 e ‘60, come nel resto d’Italia.

La componente industriale era formata da principio, oltre che dall’indotto delle aziende del servizio pubblico locale e nazionale (Atac, Zecca, FFSS, Acea) da un insieme di piccole e piccolissime imprese, prevalentemente botteghe artigianali, in gran parte abusive.   

Tra gli anni Cinquanta Sessanta in avanti si affiancarono imprese di dimensioni medie e grandi, sia pubbliche, come la Manifattura tabacchi, la Centrale del latte, il Poligrafico dello Stato, sia private che riguardavano dapprima il settore tessile (Snia Viscosa),  alimentare (Gentilini), tipografico (Apollon), e poi successivamente il settore farmaceutico (Penicillina, Angelini), delle telecomunicazioni (Fatme/Ericksonn) e dell’elettronica civile (Voxson) e militare (Telespazio, Selenia/Alenia).

L’industrializzazione romana è stata quindi a prevalenza statale, caratterizzata da basso sviluppo tecnologico, ma ha presentato anche delle eccezioni significative per quanto riguarda soprattutto il comparto industriale militare e l’indotto a esso collegato. Tutti questi aspetti non sono assolutamente casuali, in maniera particolare l’ultimo. La metropoli-capitale, oltre a essere sede di ministeri, enti pubblici, istituzioni culturali, deve prevedere anche la presenza di caserme, aree sottoposte a servitù militari e centri di comando strategici.

La prospettiva industrialista su Roma degli anni ‘60 era figlia del “boom economico” e godeva di un sostegno trasversale. Era preponderante nel Pci e nella Cgil, che avevano da sempre visto nella grande fabbrica fordista il motore del conflitto di classe e, nello specifico romano, il vettore che avrebbe emancipato la città dal controllo della classe dirigente conservatrice.

Negli anni Ottanta il sogno di una Roma capitale dell’industria comincia a essere travolto dalla competizione mondiale e dalla drastica riduzione delle commesse pubbliche, che metteva ripetutamente in crisi la struttura industriale della città. In particolar modo la “Tiburtina valley”, che avrebbe dovuto trasformare definitivamente il volto della vecchia città burocratica e impiegatizia in un polo d’avanguardia nella ricerca e nell’innovazione industriale, sia militare che civile.

Negli anni ‘90 si registra un tentativo di ripresa. Roma nel suo complesso (includendo anche il polo farmaceutico di Roma sud che percorre la consolare Pontina fino a Pomezia) arriva a posizionarsi come la terza città industriale del paese (dopo Milano e Torino). Nel 1993 si contano 1.500 aziende attive e 320.000 occupati nel settore. Negli anni a venire la concorrenza globale diventa sempre più spietata, le grandi multinazionali delocalizzano, il numero di addetti si riduce drasticamente. Di quella che doveva essere la “Silicon valley” italiana rimane poco. L’attuale polo tecnologico tiburtino rimane poco più che una testimonianza dei tempi che furono.

 

Edilizia, il vero motore di sviluppo

Il vero motore dell’industria romana, in verità, è stata l’edilizia, e nel lungo periodo è stato anche il traino dell’occupazione. Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta migliaia di edili provenienti dalle regioni del centro-sud hanno “invaso” Roma, richiamati dalle opportunità di lavoro che i progetti di espansione e di ricostruzione della città del Secondo dopoguerra offrivano. La città era diventata come una “grande fabbrica” che produceva “quartieri”, assicurava profitti e ricchezza per pochi costruttori (fra tutti la Caltagirone SpA, il gruppo Lamaro della famiglia Toti e la Impreme SpA della famiglia Mezzaroma, nonché la Società Generare Immobiliare del Vaticano) e proprietari fondiari, procurava reddito per i lavoratori, spesso extralegali e sottoposti al caporalato, che si trovavano a risiedere in aree periferiche, in alcuni casi in vere e proprie a baraccopoli.

Si stabilisce così, anche a Roma, il rapporto perverso tra Capitale-Lavoro-Rendita, però nel quadro di una crescita estremamente disordinata della città.

L’origine del capitalismo propriamente romano va individuato quindi in questa relazione, assecondata da un sistema politico clientelare che diede il via libera alla speculazione, allo “sviluppo” della città a macchia d’olio, senza il necessario sostegno di servizi pubblici adeguati.
Per il risanamento si dovrà attendere le “giunte rosse” che governarono dal 1976 al 1985 le quali, attraverso i sindaci Argan, Petroselli e Vetere, riuscirono a imprimere una svolta per quanto riguarda la questione periferie e il rilancio dell’immagine città a livello europeo e globale.

Quella delle “giunte rosse” fu un’inedita stagione politica, amministrativa e culturale, contrassegnata da un processo di integrazione a dir poco contraddittorio tra centro e periferia. Si pensi solamente all’attuazione del Piano di Edilizia Economico Popolare (Peep) o dell’inaugurazione della tratta Cinecittà-Battistini della linea A della metropolitana. Grazie a questi importanti avanzamenti, i palazzinari romani riusciranno a trarre ulteriore beneficio e a uscire dal confronto-scontro con le giunte rosse molto più forti di prima.

Proprio tra la fine degli anni ‘70 e la prima metà degli anni ‘80 si dà l’avvio a un modello di sviluppo del centro città incentrato sul terziario avanzato, che ha avuto come protagonisti il credito, le assicurazioni, i servizi alle imprese e la comunicazione. La parte della città a ridosso delle Mura Aureliane comincerà a essere colonizzata dall’espansione del nuovo terziario e le periferie diventeranno terreno di coltura degli interessi della rendita fondiaria e dei palazzinari, alimentati dalla domanda di costruzione di nuovi quartieri necessari per accogliere i nuovi abitanti espulsi dal centro e i “risanati” dalle ex baraccopoli.

La terziarizzazione delle aree centrali fu funzionale alla valorizzazione della rendita fondiaria e immobiliare, oltre ad essere strettamente connessa al riassetto sociale e produttivo della città. Non è un caso che i proventi della rendita vengano reinvestiti in società editoriali, nell’acquisto di testate giornalistiche, partecipazioni in società finanziare e assicurative. Proprio grazie alla ridefinizione del centro città comincia a configurarsi il processo di turistificazione.

 

 

Per turistificazione possiamo indicare quella molteplicità di effetti prodotti dai flussi turistici nella configurazione degli spazi urbani, nella loro funzione e nella loro fruizione. Possiamo aggiungere a ciò che la turistificazione è un processo di valorizzazione continua del patrimonio urbano e della rendita ad esso collegata, che nella città di Roma assume una particolare importanza. Una messa a valore che è allo stesso tempo una messa a profitto, fermo restando che la turistificazione è molto più un vettore che un generatore diretto di profitto. Si tratta di ricostruirne la genesi.

 

Argan, Petroselli, Vetere: la nascita della fabbrica degli eventi

A seguito della vittoria del 1976 da parte del Partito comunista, ottenuta dalla sinergia tra abitanti interessati al risanamento delle borgate, parte dell’imprenditoria edile, che durante gli anni precedenti aveva abbandonato la Democrazia cristiana, e da tanti altri settori della società romana che avevano denunciato a più riprese e in varie forme i mali che attanagliavano la città. Questo segnò una rottura molto netta con il passato politico e amministrativo di Roma, ma non solo. Da capitale post-coloniale caotica e priva di un protagonismo forte, Roma divenne uno dei primi laboratori urbani.

La nuova giunta guidata da Giulio Carlo Argan, storico dell’arte ma anche burocrate di lungo corso, introdusse inedite modalità di promozione sociale e culturale nella politica locale che stravolsero completamente i modelli praticati fino a quel tempo. Il nuovo sindaco avviò un rigoroso, quasi filologico, restauro del centro storico, lanciò l’idea di liberare i Fori dalle superfetazioni architettoniche del Ventennio, si mise in sintonia con il mondo europeo della cultura, e propose un progetto di cooperazione, se non addirittura di competizione, con le altre grandi capitali, in primo luogo con Parigi.

La “politica della cultura” si sostanziò fin da subito con grandi e memorabili mostre sui pittori moderni e contemporanei, ma il prodotto più originale e attrattivo che venne messo in opera fu quello dell’Estate romana.

La grande intuizione che generò l’Estate romana è da attribuire a Luigi Petroselli, passato alla storia come il “sindaco dei borgatari”, che sostituì Argan due anni dopo. Fu lui che ebbe il merito di denunciare un male mai messo in evidenza a Roma, quello di non essere riconosciuta dalla maggioranza dei suoi cittadini e in particolare da quelli delle periferie. Questa grande e scandalosa mancanza venne affrontata con il lancio di iniziative come le Domeniche a piedi, grazie alle quali se da un lato si impediva la circolazione delle auto per fronteggiare la crisi energetica degli anni ‘70, dall’altro queste divennero un formidabile strumento per illustrare alla popolazione il progetto della giunta sui Fori imperiali e su tutto il centro città. A queste attività diurne si integrarono le iniziative notturne del cinema alla Basilica di Massenzio, al Circo Massimo e all’Arco di Costantino, grandi battesimi di massa per la stagione dell’Estate romana, ideata dall’architetto e assessore comunista Renato Nicolini, che durò 9 anni.

Dalla prima iniziativa datata 25 agosto 1977, la proiezione del film Senso di Luchino Visconti, fino all’estate 1985, dalla Basilica di Massenzio alla spiaggia di Castel Porziano, passando per Villa Borghese, dai cinema all’aperto fino ai reading dei poeti di fama internazionale, i criteri, innovativi e di controtendenza, privilegiati da Nicolini furono: l’allocazione degli eventi in tutti i possibili luoghi attrattivi della città, anche in quelli apparentemente meno prevedibili; il rifiuto di una divisione classista ed élitaria del sapere per allargarne l’accesso; la rottura della barriera fisica e psicologica tra centro e periferia; la contaminazione dei generi e dei livelli culturali; la compresenza di spettatori di ogni età, di ogni estrazione sociale e di ogni provenienza geografica, abbattendo anche la differenzazione tra turista e residente; il coinvolgimento degli attori più disparati del settore cultura, dai circoli alternativi a quelli più accademico istituzionali.

Il grande coinvolgimento popolare dell’Estate romana va analizzato su due livelli. Se da un lato deve essere considerato come una forma aggiuntiva di partecipazione rispetto a quella sviluppata nei quartieri a opera del Pci e delle strutture a esso collegate – del resto le giunte chiedevano ai cittadini che le avevano investite un impegno a partecipare e a collaborare per un nuovo progetto di città –, dall’altro l’aspetto di rilancio strettamente economico non va trascurato: si trattava di rilanciare l’economia investendo nelle attività di ristorazione e di commercio, in particolar modo quelle situate nel centro città.

Non bisogna dimenticare che le “domeniche a piedi” e l’Estate romana erano rese possibili anche dall’entrata in funzione della metropolitana A che si integrava con quella che sarebbe divenuta la linea B, estensione della vecchia tratta Termini-Eur progettata durante il fascismo. Le stazioni di piazza di Spagna e del Colosseo facevano affluire migliaia di cittadini e di turisti, riproponendo in versione amplificata il tradizionale “struscio” delle Cento città d’Italia.

Senza dubbio era ancora diffusa una forte impreparazione da parte dell’imprenditoria commerciale romana. All’inizio degli anni ‘80 Roma era comunque decenni indietro rispetto a quello che succedeva nelle grandi città europee e del più vasto “occidente” in termini di diffusione dei consumi di massa, e dove già allora si coltivava il progetto del turismo globalizzato.

Banco di prova per le giunte di sinistra e per le due amministrazioni che seguiranno furono due grandi eventi, il Giubileo del 1985 che precedeva e annunciava quello del 2000 e i mondiali di calcio, giocati in Italia, del 1990.

Il Vaticano già da allora faceva pressioni sull’amministrazione comunale per predisporre le infrastrutture necessaria all’accoglienza, ma allo stesso tempo riconvertiva i suoi conventi in strutture recettive competitive rispetto al sistema alberghiero e ai servizi complementari esistenti, non fosse altro perché esenti da imposte. Proprio negli anni immediatamente precedenti venne fondata la potentissima agenzia turistica Vaticana, denominata Peregrinatio ad sedem Petri.

All’epoca era anche in fase di costituzione una vasta flotta di autobus turistici che iniziavano ad invadere le strade del centro. Iniziavano i primi “bus-tour” di vacanza in Italia che facevano da spola tra Firenze, Venezia e Roma, mentre anche le compagnie aeree cominciavano ad allestire i loro pacchetti.

Le giunte di sinistra non furono in grado di gestire un fenomeno di tale portata. Contraddizioni interne, dovute alla cattiva influenza di transfughi delle passate giunte di centro-sinistra, alle pressioni della “banda del mattone”, alle persistenti tensioni abitative nelle periferie che in fin dei conti non erano state risolte, fece sfuggire il controllo all’ultima amministrazione rossa, quella di Ugo Vetere, da sempre “sindaco ombra”, l’unico che comunque riuscì a concludere il mandato.

Seguirono due giunte democristiane e in seguito tre giunte guidate dal craxiano Franco Carraro. Quest’ultimo, ex ministro ed ex presidente della FIGC, scelto nell’imminenza dei mondiali di calcio di Italia ‘90, traghettò la città di Roma nel baratro degli scandali di “Tangentopoli”. A breve si sarebbe aperta un’altra stagione.

 

Rutelli e Veltroni: luci e ombre del Modello Roma

L’8 dicembre del 1993 a inaugurare la nuova stagione amministrativa romana fu l’elezione di Francesco Rutelli. Il quadro politico uscito dall’inchiesta “Mani pulite” era completamente stravolto, e anche le amministrazioni subirono la spinta di questa ennesima e al tempo stesso inedita rivoluzione passiva.

Per la prima volta nella storia repubblicana il sindaco veniva eletto direttamente dai cittadini, l’ex Pci, ormai divenuto Partito democratico della sinistra (Pds) stava investendo in maniera alquanto spericolata su un’ipotesi di cambiamento che necessitava di nuovi profili.

Francesco Rutelli ne rappresentava uno mai visto prima nel campo della sinistra tradizionale. Non ancora quarantenne, ex segretario del Partito radicale, leader nazionale dei Verdi e ben inserito nei salotti romani. Una nuova figura, candidata in opposizione all’escalation di consensi del neofascismo romano, che aveva candidato il segretario dell’Msi Gianfranco Fini, ma anche, e questo è opportuno sottolinearlo, in aperta rottura con l’esperienza delle giunte rosse. Non fu un caso che il grande sacerdote dell’Estate romana Renato Nicolini si candidò a sindaco, sostenuto da una lista civica alternativa e dal Prc.

La lista delle attività messe in atto da Rutelli fu notevole, soprattutto per la durata della sua carica (1993-2000), e proprio grazie a questa continuità, che proseguirà senza rilevanti rotture programmatiche con le successive giunte guidate da Walter Veltroni (2001-2008), che si configura il Modello Roma.[23]

Per Modello Roma si intende una forma di sviluppo urbano caratterizzato da una politica finanziaria espansiva finalizzata alla realizzazione di grandi opere, alla costruzione di un elevato consenso mediatico, all’apparente aumento della partecipazione prodotta della decentralizzazione (nascita dei nuovi municipi), a rinnovate modalità di comunicazione pubblica, nonché al diffondersi di nuove forme di celebrazione dei grandi eventi urbani.

Le iniziative messe in pratica da Rutelli e proseguite sotto l’amministrazione Veltroni sono state numerosissime. È sufficiente ricordare: l’inaugurazione del nuovo museo dei Mercati di Traiano; il vasto piano di restauri e scavi archeologici; la costruzione e il restauro di 160 piazze; il ripristino integrale dell’antico tracciato dell’Appia Antica; la progettazione e la realizzazione dell’Auditorium Parco della Musica; il rinnovamento dei Musei capitolini; la nuova teca-museo dell’Ara Pacis; l’apertura di più di venti spazi espositivi tra i quali le Scuderie del Quirinale e il museo Maxxi; la trasformazione di numerosi spazi pubblici in zone pedonali; l’inaugurazione di una nuova linea tranviaria e di un paio di nuove linee ferroviarie e della terza corsia del Grande raccordo anulare; l’apertura dei nuovi Mercati generali sulla Tiburtina; le misure atte a preservare aree verdi e agricole.

Ad aumentare in maniera esponenziale l’afflusso turistico nella città di Roma contribuirono due importanti interventi: la riconversione dell’ex Aeroporto militare di Ciampino in Terminal di compagnie aeree low cost, avvenuto nel 2001; l’inaugurazione nel porto di Civitavecchia della banchina riservata alla Navi da crociera, nel 2005.

Tuttavia, queste azioni, funzionali alla valorizzazione del territorio e alla sua profittabilità in termini di turistificazione, non furono esenti da contraddizioni che ridussero di gran lunga l’impatto apparentemente innovativo del Modello Roma.

Possiamo elencarne almeno otto:

1) Insufficiente gestione delle ondate migratorie. Ciò comportò una sorta progressiva di etnicizzazione del disagio sociale che si espresse nel ritorno di quelle baraccopoli scomparse negli anni 70-80, questa volta popolate prevalentemente da rom e sinti; nonché da nuovi fenomeni di tratta di esseri umani (prostituzione, impegno coatto di minori, servitù domestiche, matrimoni forzati) che proprio nel quindicennio del Modello Roma iniziarono a diffondersi;

 2) Mercificazione della città. Lo sviluppo della città non ha innalzato lo standard di vita dei suoi abitanti, ma ha iniziato progressivamente a soppiantarli con nuovi gruppi sociali la cui venuta, contrariamente da quella del punto precedente, è stata fortemente incoraggiata. Focalizzandoci solo sul centro storico, i residenti entro le Mura Aureliane erano 370.000 nel 1951, scesero a 111.000 nel 2001, nel 2016 si sono ridotti a 33.000, meno di quanti erano stati nel Medioevo. Una vera e propria spinta centrifuga che ha espulso abitanti fuori dal Gra, aumentando il tasso di sfruttamento di persone, di risorse e di territorio. Un esempio fra tutti è il problema della produzione e dello smaltimento dei rifiuti, non affrontato all’epoca e attualmente ancora irrisolto.

3) Scomparsa della pianificazione urbanistica. Sappiamo bene che l’economia ha sempre piegato ai propri interessi l’organizzazione della città e dei territori. Tuttavia, nel passato la pianificazione urbanistica delle amministrazioni comunali ha avuto un ruolo non marginale nella tutela dei beni comuni, del patrimonio artistico e dell’ambiente, o almeno, ha permesso di contenere i danni. Con il Modello Roma abbiamo assistito all’accantonamento della pianificazione, non è esistito in termini urbanistici, il Piano regolatore promosso da Veltroni non è stato nient’altro che una sommatoria di progetti che rispecchiavano interessi privati.

4) Ritardi nella gestione della mobilità e del trasporto. Questi ritardi rispetto ad altre città europee (Londra, Parigi, Berlino) sono clamorosi, e stiamo parlando dell’ambito che più incide sulla quotidianità di lavoratori e residenti. La qualità del trasporto del servizio pubblico non ha subito nessun incremento, e non solo, il Modello Roma sotto la guida veltroniana ha rimarcato la progressiva sostituzione con il trasporto privato. L’ombra del modello Fiat ha continuato a dominare il quadro. Il numero di auto immatricolate nel 2007 ha raggiunto il valore di 732 vetture per mille abitanti, mentre in Europa solo sei città superavano quello più modesto di 500 ogni mille.

5) L’illusione della partecipazione pubblica. Soprattutto sotto l’amministrazione Veltroni, la città di Roma venne indicata ripetutamente dai mass media come una città all’avanguardia sul fronte della democrazia partecipativa. Indubbiamente questo va addebitato alle ottime relazioni che Veltroni ha intrecciato con il mondo della comunicazione. Nei fatti non si è assistito a nessuna forma di partecipazione politica finalizzata alla nascita e allo sviluppo di una cittadinanza attiva. I Municipi, istituiti nel 2000 come tratto politico caratterizzante del Modello Roma, replicarono in tutto e per tutto l’opacità della gestione pubblica tradizionale.

6) Problemi nella gestione dei flussi turistici. Con l’incremento dei flussi turistici crebbero anche i problemi. L’espulsione progressiva dal centro città, nuove migrazioni e un grande impatto ambientale ridussero e in molti casi annullarono i benefici di questo nuovo settore in espansione.

7) Questione dell’emergenza abitativa. Sotto le giunte di Rutelli e Veltroni, Roma divenne una fra le città del mondo che poteva vantare gli affitti più elevati. La questione non ha riguardato solo il centro città, ma anche i quartieri fuori dalle Mura Aureliane, soprattutto se limitrofi alle sedi universitarie. Nel 2008 Roma aveva già una popolazione universitaria che superava le 200.000 unità, e non esisteva nessun piano per destinare residenze agli studenti. In quel quindicennio iniziarono le cartolarizzazioni delle case degli enti pubblici, e grazie a questa opera di privatizzazione a tappeto si impennarono gli sfratti per morosità. Si acuiva così l’evidente contraddizione tra, da un lato, l’impoverimento delle famiglie, e dall’altro, la continua lievitazione dei canoni d’affitto.

8) Questione ambientale. Se è vero che la problematica ha avuto e ha ancora dei connotati globali, il Modello Roma non si è distinto per contributi virtuosi, anzi è rimasto inesorabilmente indietro, ancorato a una visione naif dell’ecologismo, meramente conservatrice, senza rinnovare in nessun modo gli apparati energetici, né adoperando la svolta necessaria al ciclo dei rifiuti.

 

2008. Inizio di un nuovo declino

Veltroni abbandonò la carica di sindaco il 13 febbraio del 2008, quando era già segretario del Partito Democratico, per candidarsi alle elezioni politiche, ma qualcosa nell’aria era già cambiato. Nel 2007-2008 la crisi dei mutui subprime colpiva duramente gli Stati Uniti e in poco tempo si sarebbe abbattuta anche in Europa. Il 21 dicembre 2007 il governo Prodi aveva approvato l’esenzione dell’Ici per le prime case, voce molto sostanziosa delle entrate dei bilanci comunali, che sarebbe stata abrogata di lì a poco dal nuovo governo Berlusconi e sostituita da una compensazione statale. Ad aggravare ulteriormente la situazione ci pensò Tremonti con il patto di stabilità interno, che ridusse notevolmente le capacità di spesa degli enti pubblici fissando una progressione decrescente nel vincolo tra debito e PIL degli enti locali, inizialmente del 2,5, poi 2, 1,5, fino al 0,5 previsto per il 2011. Si chiudeva definitivamente la stagione del “Modello Roma” come (fallimentare) modello di rilancio, iniziava l’epoca della lotta contro il debito.

Non staremo qui a analizzare in dettaglio le fasi di questo lungo processo che ancora persiste, non ci sono più finti “splendori” da raccontare, ma solo miserie. Tutte le contraddizioni del Modello Roma esplosero in maniera fragorosa peggiorando in maniera considerevole le condizioni di vita dei residenti e dei lavoratori. Le presenze turistiche sono arrivate a 46 milioni nel solo 2019, e dei benefici che si erano prefigurati, neanche l’ombra, se non per una piccola schiera di imprenditori.

 

 

 

 

 

3. La rendita nel turismo, un’opportunità per il Capitale, nella Capitale

 

Lo stato di prostrazione che sembra ormai pervadere irreversibilmente larghi tratti del panorama urbano della città capitale ci mostra, ben oltre i conosciuti vizi e limiti politici e amministrativi, i connotati di una crisi strutturale.

La fine del sistema di relazioni incardinato intorno ai flussi di finanza pubblica che hanno fatto da volano a un’intera fase storica post-bellica, caratterizzato dalla centralità nelle dinamiche di crescita del settore edilizio, alternativa al modello industriale del Nord, e del pubblico impiego, con il costituirsi di un largo strato di ceto medio impiegatizio, non lascia intravedere fuoriuscite da una latente stagnazione. Una condizione su cui hanno operato in profondità i vincoli di bilancio e di gestione delle politiche di rientro dal debito, precipitazioni territoriali dei trattati della Unione europea, con una funzione destrutturante del ruolo di città baricentro negli equilibri politici sociali ed economici di ciò che si è definito sistema-paese.

Una crisi d’identità, dai chiari contenuti politici, economici e sociali, per una città che intorno alla funzione di “centro”, pur nella inevitabile discontinuità di fasi ed epoche storiche, ha costruito parte fondamentale della sua storia plurimillenaria: centro del più grande Impero dell’antichità sorto in “occidente”, centro della Cristianità, centro della Nazione. Un sovrapporsi di dimensioni, epoche storiche, all’origine di una straordinaria stratificazione storica e culturale, un contesto di relazioni unico, che tutt’oggi pone Roma in una condizione di originalità nei confronti delle metropoli globali. La sola circostanza di comprendere nel suo territorio tutte le funzioni di rappresentanza di due Stati, quello Nazionale e quello del Vaticano, con un portato di relazioni storico che perdura e attraversa l’intera città, sarebbe di per sé sufficiente a decretarne lo status di unicità.

Naturalmente l’eterogeneità della formazione e strutturazione storica di Roma interagisce con la complessità dei processi di trasformazione fino alla fase attuale di metropoli globale, che nel contesto della competizione è chiamata a definire la propria fisionomia. Una crisi di identità da collocare in un passaggio epocale con l’affermazione di coordinate nuove nella relazione centro-periferia, collegate al processo di integrazione europea, al rovesciamento della relazione pubblico-privato e all’innalzamento del profitto a parametro di efficienza e la sua estensione alla quasi totalità del sistema di rapporti sociali.

Insomma, il blocco sostanzialmente egemone per decenni, costruito intorno alla gestione dei flussi di finanza pubblica, ha lasciato il campo a un universo composito di frammentazione sociale ed economica dei rapporti sociali, determinato proprio dall’incessante azione della privatizzazione: una filiera di relazioni economiche che nella riproduzione a ogni nuovo livello di rapporti privatizzati degrada fino a livelli interstiziali.

Risulta dunque problematico ricostruire la rete dei rapporti sociali per individuare i nuovi soggetti dominanti in questo vorticoso reticolo di relazioni. Come scritto, nella metropoli romana sono presenti componenti industriali non trascurabili, mentre il terziario, in tutta la sua vasta gamma di articolazioni, è la componente essenziale; così come il pubblico impiego dà linfa reddituale a diverse decine di migliaia di abitanti. Ciò che sembra caratterizzare la crisi strutturale della città è proprio l’impossibilità di recuperare al proprio interno una nuova centralità di funzioni. La competizione globale rende il territorio, inteso come stratificazione della totalità delle relazioni, oggetto delle dinamiche della valorizzazione capitalistica, in una condizione di finanziarizzazione la cui dimensione sovranazionale espropria ruoli e funzioni a una diversa fase di sviluppo delle forze produttive e a un diverso contesto socioeconomico.

La crisi strutturale della metropoli romana si riverbera in crisi di governance, di modello di gestione del sistema di relazioni, sia nella dialettica politica ed economica con il potere centrale, con cui è venuto meno la storica organicità, sia nella sua capacità di intercettare i flussi di capitale finanziario indispensabili per la valorizzazione produttiva del territorio, conseguenti alla fine del ruolo della finanza pubblica quale leva economica delle dinamiche urbane.

I tratti delineati evidenziano il trasferimento dalla gestione pubblica con tentativi di programmazione, a un modello speculativo mirato esclusivamente alla realizzazione di profitto a breve, in cui il territorio da patrimonio da valorizzazione e tutelare diviene oggetto in una visione puramente affaristica di sistematica appropriazione privatistica di risorse, origine di impoverimento sociale e degrado urbano.

Naturalmente l’immenso patrimonio culturale concentrato nella metropoli, risultato della combinazione delle “centralità storiche” assunte dalla città, ne hanno fatto luogo di flussi di genti in ogni epoca. In quella attuale, l’affermazione dell’industria del turismo di massa e della sua torsione ultima, la “turistificazione”, in cui un complesso di attività economiche converge nella gestione e valorizzazione capitalistica di masse in movimento attraverso la città, si pone quale  componente primaria nel modello di relazioni nella metropoli: la turistificazione è pertanto un profilo peculiare assunto dal processo di espropriazione-valorizzazione nel sistema di relazioni  neoliberista del territorio urbano.

Un modello che per riprodursi necessita di un sistema di auto-promozione del territorio in chiave mercantile, in cui il patrimonio urbano viene sussunto alle necessità della valorizzazione e all’urgenza di ridurne sempre più i tempi di realizzazione, la velocizzazione dei tempi di circolazione del capitale è plasticamente riassunto nel flusso del turismo “mordi e fuggi”, nella città dei torpedoni e dei negozi di chincaglierie turistici.

La turistificazione può essere rappresentata, accanto alla speculazione immobiliare e finanziaria, come l’altra faccia del medesimo modello economico, produttivo, affaristico-liberista che si è impossessato della città. Allora, la concentrazione di interessi privatistici diffusi e ramificati è la condizione che domina il sistema di relazioni sociali della città capitale, un frastagliamento privatistico del modello economico e produttivo che agisce come diaframma tra le risorse urbane e  la gestione per finalità di interesse generale, che sconfina spesso nell’illegalità come dimostrato dalla vicenda “Mafia capitale”, la cui  sistematica riproposizione è destinata, per le logiche intrinseche al suo funzionamento, ad approfondire la spirale appropriazione privatistica delle risorse e del conseguente declino della città.

Il turismo è l’articolazione di una pluralità di processi di produzione di beni e servizi – trasporti, alberghiero, ristorazione ecc. –, che a sua volta rimanda a specifiche branche di mercato. Ovviamente non ci interessa la classificazione del mercato turistico per tipologia, territorio, ma cogliere le modalità della valorizzazione imposta dal modello liberista ai flussi del turismo nella città globale.

Un primo aspetto, tema di approfondimento del capitolo successivo, è il sistematico svilimento della condizione lavorativa. Le branche produttive reali che sottendono la turistificazione, lungi dall’essere il motore dell’economia metropolitana, costituisce non solo un costo in termini di gestione cittadina dei servizi, manutenzione, rifiuti, trasporti, ma sotto il profilo occupazionale realizza nella migliore delle ipotesi una condizione di “precario galleggiamento”, in un contesto di degrado urbano e impoverimento sociale su cui opera attivamente.

Inoltre, se l’imporsi della turistificazione interviene come il contenitore delle dinamiche di valorizzazione capitalistica del territorio, la promozione di questo attraverso una propria narrazione è una condizione fondamentale, come la costruzione di simboli e riferimenti capaci di evocarne i caratteri in modo esclusivo. Si palesa, al riguardo, una sostanziale differenza tra Roma con le altre metropoli con cui è in competizione: la mancanza di una qualsivoglia opzione di governo del fenomeno che possa alludere alla gestione nella città di un sistema di relazioni commerciali, culturali, ecc. Berlino, Parigi, Londra, Barcellona, finanche Lisbona, per restare nel Vecchio continente, si offrono attraverso un “logo” universale e inconfondibile, capace di aumentarne l’attrattività in modo crescente e spesso immotivato, rispetto per esempio alla ricchezza effettiva del patrimonio artistico e culturale, operando invece nell’immaginario consumistico con l’affermazione di un “brand globale”, con l’evidente risalto del ruolo trainante sul piano nazionale di quelle concentrazioni metropolitane. Non è il ritardo nella gestione delle dinamiche competitive che interessa, quanto il riprodursi anche nel campo di ciò che abbiamo definito turistificazione, di una precisa fisionomia di città incapace di imporsi, oltre lo stretto contingente quasi sempre a contenuto emergenziale, con una visione di medio e lungo periodo.

In termini generali, ciò che abbiamo definito la crisi strutturale della città sembra proporsi come combinazione delle contraddizioni delle difficoltà nel nuovo sistema di relazioni post-Maastricht e della storica incapacità di classi dominanti, parassitarie e speculatrici, di fornire un modello di metropoli nel contesto competitivo globale. La turistificazione è l’emblema dell’abbandono della programmazione pubblica nella gestione del territorio a favore di una concezione liberista in cui compositi interessi privati si appropriano del patrimonio e delle risorse della città.

Insomma, la turistificazione nella metropoli romana si offre come processo “spontaneo” nel contesto del fenomeno della mondializzazione, a partire dalla manifestazione più esteriore di intensificazione della circolazione di esseri umani e capitali. In modo esemplificativo possiamo considerare, da un lato, come segmenti storicamente strutturati dei circuiti turistici, vedi il turismo religioso e quello alberghiero pluristellato, riconfigurano il loro potenziale affaristico alla luce dei crescenti flussi di movimento. Dall’altro, il turismo delle piattaforme digitali, quello che meglio esprime la pervasività delle caratteristiche della turistificazione, a più diretta interazione con il territorio, i suoi servizi. La complessità del fenomeno non si esaurisce ovviamente nei tre filoni elencati, ma ci sono utili per evidenziare, sia pure in modo approssimativo, alcuni aspetti della turistificazione nell’ambito metropolitano romano.

Si riconferma dunque come l’offerta del territorio ai flussi del movimento turistico-avventizio non è parte di una strategia unitaria di promozione della città, il sistema-Roma è di fatto inesistente. Ciò che opera sono movimenti interni ai singoli circuiti: quello religioso, si riproduce motu proprio,  con la nota autonomia legislativa e fiscale di origine pattizia; il turismo alberghiero della comunità affaristica transnazionale si muove in un delimitato circuito auto-referenziale, ma ad alto impatto socioeconomico; il flusso gestito dalle piattaforme digitali intercetta la massa dei movimenti non organizzati, oppure opera a ridosso degli eventi, magari con pacchetti confezionati ad hoc, comunque al di fuori di qualsivoglia logica di sistema territoriale coordinato.

Le piattaforme digitali costituiscono la tecnologia propria alla turistificazione, la modalità della mediazione tra offerta del territorio e domanda “da remoto”, con una diversità di funzione: negli ambiti del turismo strutturato, come quello religioso, la piattaforma digitale opera in funzione di accrescimento della domanda all’interno di una propria e qualificante dotazione di capitale fisso (strutture recettive) e con una riconoscibile e definita gamma di servizi, di cui il territorio è fornitore alla struttura, mentre in quello non organizzato convoglia masse in movimento nello spazio urbano, dove i servizi sono direttamente riconducibili al territorio.

Territorio che è stato progressivamente predisposto all’assunzione delle dinamiche della turistificazione: nei 15 km quadrati che corrispondono all’area del centro storico, come scritto in precedenza lo spazio residenziale è stato svuotato e riadattato alle necessità della speculazione immobiliare e della turistificazione, dove convivono le “luci” della città vetrina e le “ombre” dei mastodontici torpedoni, facce del medesimo modello di città neoliberista. È dunque questa la dimensione in cui operano le piattaforme digitali lungo una filiera che si scompone nei mille rivoli dell’offerta dei bed & breakfast, ossia dei property manager, gestori di appartamenti, dilagando nell’onnipresente sommerso.

La combinazione tra sistema di relazioni neoliberiste e territorio opera attraverso la turistificazione a una profondità e con una estensione maggiori rispetto al turismo strutturato, il sistema economico-produttivo cittadino viene inevitabilmente acquisito e stravolto dalle dinamiche dei flussi in movimento, soffocando il territorio con tutti i fenomeni connessi alla valorizzazione a partire da una costante gentrificazione delle zone del centro storico, a cui negli ultimi anni vanno ad aggiungersi le zone della movida giovanile. Il dato accertato delle masse transumanti attraverso la città ci indica nel 20% dei siti e aree circostanti del territorio un transito di circa il 90% dei flussi, un impatto devastante.

Quanto considerato è inerente alla scelta di un punto di osservazione rivolto “verso il basso” delle relazioni socioeconomiche, l’interazione tra territorio metropolitano e modello di relazioni neoliberista. L’avvento delle piattaforme digitali nei processi di valorizzazione è connesso altresì a un fondamentale processo di acquisizione di materia prima strategica nel mondo digitale: le informazioni e i dati sui comportamenti dei consumatori.[24] Il flusso di informazioni garantito dalle aree metropolitane nell’elaborazione degli algoritmi predittivi dalla raccolta dei comportamenti di massa, ma individualizzati nella gestione, ne fanno un giacimento insostituibile per il capitalismo sempre-più-apertamente della “sorveglianza”.[25] Il flusso di informazioni rappresentato dalle masse in movimento nella metropoli, consumatori con propensione alla spesa, sono indubbiamente materia prima pregiata e la turistificazione ne costituisce uno dei cardini.

Non solo: le piattaforme digitali operanti nel settore turistico (Ota, acronimo di Online travel agencies), oltre a riconfigurare il territorio per le necessità della valorizzazione, ne rappresentano l’articolazione del capitale finanziario transnazionale. Ormai, anche su Roma opera l’oligopolio delle Ota come Booking, Expedia, Trip Advisor, Airbnb, con sedi nei paradisi fiscali, non certo limitata ai soli costi di intermediazione. Booking, Expedia e Trip Adivisor nascono come start up di Microsoft, mentre Airbnb è una creazione Amazon, e tutte hanno al proprio interno quote azionarie dei maggiori hedge fund e banche d’affari come Blackrock, Vanguard, State Street, J. P. Morgan, BNP Paribas. Questa “occupazione pianificata” del mercato del turismo si inscrive nei processi di mondializzazione nel suo connotato più pertinente, e cioè la finanziarizzazione, a partire dai sistemi di pagamento digitali.

Per fornire alcune coordinate del contesto metropolitano romano, si è fatto riferimento a un sostrato storico che interagisce con l’attuale modello di turistificazione. Il flusso turistico a sfondo religioso è indubbiamente un aspetto centrale su cui può essere utile fornire alcuni dati. Dal punto di vista storico, l’invenzione del giubileo nel 1300 da parte di Bonifacio VIII, con il premio dell’indulgenza plenaria per i pellegrini, per il successo economico conseguito viene considerata come una sorta di “accumulazione primaria” che rivitalizzò a tal punto l’economia pontificia da renderlo appuntamento fisso. L’edificazione di San Pietro e buona parte del patrimonio artistico presente nei luoghi di culto non sarebbe stato possibile senza l’obolo dei penitenti che in massa raggiungevano Roma. Un processo di accumulazione di ricchezza protrattosi nei secoli di cui il patrimonio immobiliare, spesso di pregio, costituisce un’altra evidente rappresentazione.

Ai giorni nostri il patrimonio immobiliare della Chiesa disponibile ai flussi di massa consta di 725 immobili, un quarto di tutti gli alberghi del territorio, e inoltre esercita l’attività recettiva in 297 conventi svuotati dalle vocazioni. Un pezzo fondamentale dell’attuale economia immobiliare, legata al turismo, trae dunque origine da quanto storicamente sedimentato come patrimonio ecclesiastico. Se è vero che la vicenda della rendita fondiaria e della speculazione immobiliare, a lungo traino dell’intera economia romana, si origina nei possedimenti cardinalizi di origine aristocratica, la sua longa manus giunge a noi nelle forme delle società immobiliari, tra cui la ancora operante Società Immobiliare Generale del caso Sindona. Il rapporto di questa ricchezza con le dinamiche della turistificazione la confermano componente fondamentale nel sistema di relazioni, con pilastri altrettanto solidi nel sistema sanitario o scolastico, che sovrasta la città capitale.

Altra componente del fenomeno turistificazione su cui abbiamo richiamato l’attenzione è quella legata ai movimenti della comunità affaristica e della fascia del turismo pluristellato. Un settore che negli ultimi anni ha registrato una crescita al ritmo del 5%, ultimo dato disponibile 2018 +4,16%, incremento di poco più di 1 milione di presenze, tanto da preludere a nuove aperture con investimenti da parte delle catene alberghiere transnazionali.

L’interesse non risiede nei dati economici che, come visto, sono comunque significativi, quanto nella gestione del business che questo pezzo di finanza legata all’immobiliare propone. Quello che si delinea intorno a questo segmento di mercato turistico è l’implementazione di una filiera del lusso costruita intorno alla moda e altre componenti ad alto valore aggiunto, dai preziosi all’enogastronomia di eccellenza. La funzione del territorio nella promozione del gito d’affari è qui scientemente messa in campo in modo diffuso e sistematico: gli interventi tra gli altri di Tood’S sul Colosseo, di Fendi sulla Fontana di Trevi, di Gucci sulla Rupe Tarpea, di Bulgari sulla scalinata di piazza di Spagna, sono il segnale della colonizzazione di una parte della città, di una appropriazione della sua storia e della sua cultura a fini affaristici, per giunta sotto le spoglie di un rivoltante mecenatismo.

La componente legata strutturalmente alle Ota, come abbiamo provato ad argomentare, e quella che si irradia con maggiore pervasività nel territorio, anche se i dati ufficiali tendono a ridimensionarne in percentuale il ruolo rispetto alle altre mete dei flussi di massa. In realtà, come alcune indagini hanno recentemente evidenziato, esiste un sommerso quantificato in circa il 30% che sfugge a ogni rilevazione statistica ufficiale: 13 milioni di presenze fantasma su un totale di 46,5 milioni accertate nel 2019. La tipologia rilevata è quella dei possessori di appartamenti e seconde case anche in aree semi-centrali che nell’affitto a nero trovano una fonte di reddito addizionale, senza i rischi dell’affitto regolarizzato e di lunga durata. Insomma, uno degli espedienti del ceto medio proprietario per salvaguardare il proprio status, duramente indebolito dalla crisi.

I soli dati Airbnb sono tuttavia esplicativi di ciò che intendiamo per colonizzazione del capitalismo digitale: gli annunci presenti sulla sua piattaforma sono 31.733 a fronte di 12.306 strutture censite dalla Camera di Commercio, per un totale di 116.000 posti letto, con circa 20.000 le case affittate su Airbnb, di cui la metà nel I Municipio, pari a un posto letto ogni due residenti. L’impatto della turistificazione sulla crescita del valore immobiliare nell’area del centro storico opera in aperta simbiosi con l’altra faccia del modello neoliberista della metropoli: la speculazione finanziaria e immobiliare sui grandi patrimoni del centro storico e nelle strategie di fondi e banche per il loro controllo.

Si presenta in modo netto il modello di relazioni imposto sulla città, dove la valorizzazione neoliberista è fenomeno puramente speculativo con effetti diametralmente opposti sul piano sociale. La differenziazione centro-periferia, la polarizzazione sempre più evidente nella distribuzione dei redditi, insomma l’impoverimento della città e della maggioranza dei suoi abitanti distribuiti nei 1.250 km quadrati del territorio urbano delle vecchie e nuove periferie, sono tanto gli esiti quanto i fondamenti per la supremazia degli interessi privati che dominano la capitale. Allora, concepire una diversa distribuzione della ricchezza, un diverso modello di città è tutt’uno con la dimensione dello scontro sociale e di classe per far emergere insieme a bisogni negati l’alternativa della città pubblica, solidale, partecipata.

 

 

 

 

 

 

4. La turistificazione e il lavoro povero a Roma

 

Roma, città (d’arte) spaccata in due

Come scritto in apertura, tendenzialmente maggiore è la capacità (infrastrutturale, produttiva e finanziaria) di un luogo di essere presente nelle dinamiche del mercato globale, maggiori sono anche le possibilità di attrarre su di sé le risorse finanziarie connesse agli spostamenti “fisici” delle singole persone. Nella struttura dei rapporti sociali imposti dal modello socio-economico, questa capacità attrattiva non può tuttavia andare a beneficio di una riduzione dei livelli di diseguaglianza per come conosciuta oggi nei paesi a capitalismo maturo.

Da questo, Roma non rappresenta un’eccezione. Come abbiamo visto nell’evoluzione nel fallimento del Modello Roma targato Rutelli-Veltroni, e come scritto nel “Rapporto sull’economia romana del 2005-2006” rilasciato dal Dipartimento sulle politiche economiche e di sviluppo, i cambiamenti strutturali imposti al tessuto produttivo capitolino, orientati verso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il turismo di massa, la finanziarizzazione dell’economia, l’industria audiovisiva e culturale, se in termini statistico-assoluti hanno favorito la crescita economica della città, questa crescita tuttavia ha favorito solo una piccola élite della popolazione,[26] ossia quella legata ai settori più innovativi dell’economia e ai lavori a più alto valore aggiunto, i quali per essere svolti richiedono competenze specifiche, sono difficilmente rimpiazzabili (e quindi meglio pagati) e sono perfettamente integrati nell’attuale modello di accumulazione dei paesi economicamente avanzati, fondato sul lavoro mentale, sulla flessibilità del lavoro e sull’arretramento delle misure di protezione sociale,[27] in ossequio al nuovo ruolo svolto dallo Stato.[28]

Questo modello di società dà luogo a una forte polarizzazione sociale – la più volte citata dicotomia tra centro e periferia – e di conseguenza a una forte esclusione dei soggetti meno attrezzati alla competizione. Le caratteristiche principali sono l’emersione di un nuovo ceto povero e l’assottigliamento della classe media, la discontinuità reddituale, l’innalzamento del costo della vita dovuto al relativo aumento del benessere da parte dell’“élite cognitiva” e l’aumento a macchia d’olio del costo medio per l’affitto di una casa dovuto alla messa a valore di una porzione consistente della città a favore del settore turistico; in un concetto, l’aumento delle diseguaglianze.

Come scritto, in un’economia come quella italiana l’industria turistica non può rappresentare nessuna linea di sviluppo in grado di porsi in controtendenza con l’appena citata polarizzazione perché tende, al contrario, a ingrossare le fila di quei lavori che nell’attuale regime di accumulazione sono i meno remunerati e tutelati, e a riempire invece le tasche di pochi soggetti privati.[29]

In quanto segue, attraverso una breve analisi del mercato del lavoro mostreremo le già pesanti disparità che colpiscono la popolazione romana, sottolineando di nuovo l’errore politico di qualsiasi visione di città che punti sulla turistificazione come possibilità in grado di ripianare le attuali diseguaglianze.

 

Struttura produttiva e mercato del lavoro a Roma

Nell’area di Roma metropolitana, nel 2018, secondo l’elaborazione dei dati Istat del Comune di Roma risultano occupati 1,842 milioni di persone, quasi il 50% di quelli aventi un’età maggiore di 15 anni, il 63,8% della fascia 15-64. Il tasso di disoccupazione è al 9,8%, su cui grava il peso di quella al giovanile al 31,4%, il 20,4% dei giovani compresi tra i 15 e i 29 anni raccolti nella categoria dei Neet, e le disparità di genere che, seppur sulla via di riduzione, sono ancora molto forti: della fascia di età 15-64, il 70,4% dei maschi ha un’occupazione contro il 57,3% della quota femminile.[30] Inoltre, il 20,5% degli occupati ha un contratto part-time (+42,5% rispetto al 2008) di cui i due terzi involontario (i quali sono il 90,7% della quota di aumento del segmento, sempre a partire dal 2008),[31] mentre i 275mila regolarmente occupati nella capitale non aventi la cittadinanza italiana si concentrano soprattutto nelle classi d’età più giovani, in mansioni a bassa qualificazione e, in molti casi, la collocazione professionale non corrisponde ai livelli di istruzione e alla formazione raggiunta.[32]

Se questi dati in generale sono migliori rispetto alla performance nazionale, c’è da sottolineare che il parziale rientro del dato occupazionale è stato possibile grazie al ricorso da parte delle aziende a schemi di riduzione dell’orario di lavoro, favorendo l’aumento del part-time (specie tra le donne) e all’incremento dello spettro di settori elegibili per la Cassa integrazione.[33] Quest’annotazione è linea con i dati nazionali, secondi cui al riaggancio del numero di “teste tornate al lavoro” sul livello precrisi, mancano però all’appello circa 2 miliardi di ore lavorate, ossia il 5% dell’ammontare totale alla fine del 2007.

Di contro, il dato sulla disoccupazione nasconde quello più generale della “non-occupazione”, ossia la somma di tutti coloro in età lavorativa che non hanno un impiego, indipendentemente dal fatto di svolgere una ricerca attiva o meno (discriminante per l’Istat per l’inserimento nella categoria o dei disoccupati o dei cosiddetti “scoraggiati”). A Roma, sono 1 milione di persone a vivere in questa condizione – per chiarezza, esclusi studenti, pensionati o inabili al lavoro, a cui andrebbero sottratti i lavoratori a nero –, dato che mette più di tutti in rilievo il fallimento sociale del modello di sviluppo neo-ordoliberista,[34] dove più di un terzo della forza-lavoro attiva non ha accesso a una fonte di reddito. Se aggiungiamo la piaga del lavoro povero, poco tutelato e saltuario, il dissesto sociale è ben visibile.

Per quanto riguarda la struttura imprenditoriale di Roma, questa si concentra prevalentemente sulle attività di servizio, a cui fa da contraltare lo scarso peso del settore manifatturiero. Il commercio al dettaglio e all’ingrosso, la ristorazione, le attività di servizio per l’edilizia e l’assistenza sanitaria sono i lavori che raccolgono la maggior parte dell’occupazione. A seguito della crisi del 2008 e del riverbero sulla crisi dei debiti sovrani, si è registrato comunque un aumento anche delle attività di magazzinaggio e dei servizi di supporto alle imprese, come quelli legali, contabili e finanziari.[35]

Un aspetto interessante è che il grosso dell’occupazione cittadina non è incluso nei settori in cui la capitale risulta specializzata nel confronto con il dato nazionale, ossia quelli del trasporto aereo,[36] degli audiovisivi[37] e della produzione di software (circa 40 mila unità, ossia il 20% del totale nazionale). In generale, questo è un indice della scarsa competitività del mercato del lavoro romano, perché i settori di punta non riescono ad assorbire una fetta consistente della popolazione lavorativa.

Gli 1,6 milioni di lavoratori impiegati nei servizi e nel commercio rappresentano l’87,8% del totale degli occupati, di cui ben il 21,8% sono ascrivibile al “terziario avanzato”. Infatti, come si legge nella Tabella 1 nell’area romana il peso delle attività collegate ai servizi per le imprese, all’intermediazione finanziaria, alla compravendita di immobili o alla pubblica amministrazione e ai servizi sociali, è maggiore rispetto alla media nazionale.

 

 

 

Tabella 1 - Occupati secondo il settore di attività economica, valore %, Città metropolitana di Roma Capitale e Italia (2018).

Nel decennio dal 2008 al 2018, i comparti che hanno fatto registrare gli incrementi più importanti, sia in termini assoluti che relativi, sono quelli delle attività di servizi personali e collettivi e gli alberghi e ristoranti (rispettivamente +46,2% e +44,8%); si tratta di oltre 110 mila posizioni lavorative in settori che generalmente non richiedono una qualifica specialistica.

 

Figura 1 - Variazione % dell’occupazione per settore di attività, Città metropolitana di Roma Capitale e Italia (2008-2018).

Perciò, tali incrementi segnalano una struttura industriale, e quindi una composizione del mercato del lavoro, ancora molto legata ad attività a basso contenuto tecnologico e scarsamente innovative.

A Roma tuttavia è cresciuta anche l’occupazione in settori che in media richiedono profili professionali con elevate competenze, come le attività finanziare e assicurative (+25,1%), i servizi alle imprese (+23,4%) e i servizi di informazione e comunicazione (+11%). Come accennato in precedenza, poco meno di un quarto degli occupati nel settore terziario, lo è in quello cosiddetto avanzato:[38] si tratta di circa 400mila persone, con un incremento rispetto al 2014 di circa 51 unità, pari al 14,6%. Un’autentica peculiarità rispetto al livello nazionale (e anche regionale, Figura 2).

 

 

Figura 2 - Quota di occupati nel “terziario avanzato” sul totale, valore %. Città metropolitana di Roma Capitale, Lazio e Italia (2011-2018).

Il dato interessante è che la composizione professionale di questi lavoratori si distingue per un’alta specializzazione con un elevata presenza di dirigenti, imprenditori e di professioni intellettuali, scientifiche e tecniche.  Sommato ai dipendenti delle forze armate e della pubblica amministrazione, nonostante il blocco dei rinnovi contrattuali, la precarizzazione inserita col Contratto a tutele crescenti (Catuc)[39] e il ridimensionamento che sta subendo l’intero comparto, i lavoratori compresi da questa categoria vanno a formare uno zoccolo duro all’interno della città che ha potuto meglio resistere alla morsa della crisi.

In piena opposizione a un certo atteggiamento liberista nei confronti della questione, questo dato di “resilienza”, ben lontano dall’essere una colpa, se analizzato assieme all’incremento degli occupati con bassa qualificazione avvenuto in tutti i settori produttivi negli ultimi anni (tra cui, tra l’altro, anche nel terziario avanzato stesso) e il consequenziale ridimensionamento delle figure intermedie (operai semi-qualificati, tecnici e impiegati), dà il senso di quella polarizzazione economico-sociale oggetto di questa analisi, portatrice di un aumento delle diseguaglianze che, come visto, sarebbe perfino sostenuta da un modello di città basato sulla messa a disposizione della stessa verso la massa turistica, con evidente perdita di benefici per la maggior parte degli abitanti.

 

Tabella 2 - Occupati nel terziario avanzato secondo la professione, valore % (2018).

Una “Roma a due velocità” dunque descritta anche dai dati sulla distribuzione del reddito messa a disposizione sempre dal Comune di Roma: più del 40% dei residenti nell’area metropolitana vanta un reddito uguale o inferiore ai 15.000 euro annui, l’80% non supera la quota dei 35.000€, mentre appena il 2,3% occupa la fascia al di sopra dei 100.000€.[40] Geolocalizzando queste discrepanze, il Comune offre una cartografia del reddito medio per municipio dichiarato a Roma nel 2016.

 

 

Figura 3 - Cartografia del reddito medio per municipio dichiarato a Città metropolitana di Roma Capitale (2016).

Su questo quadro, che conseguenze sta avendo la turistificazione della città? Almeno tre dei quattro effetti descritti dalla Banca d’Italia e riportati in apertura: sviluppo di lavoro poco qualificato e reso povero da un alto tasso di disoccupazione, aumento dei prezzi del mercato immobiliare nelle fasce periferiche della città (che a Roma vanno analizzate non per cerchi concentrici, ma lungo le direttrici delle maggiori consolari) e conseguente impoverimento relativo delle fasce meno abbienti, fenomeni di congestione della viabilità[41] e degrado del territorio.

Guadagni? Per alcuni,[42] certo, anche ben profittevoli, come per agenzie di viaggio online che ormai intermediano il 70% delle prenotazioni negli esercizi ricettivi, ma sono soggette a regimi fiscali agevolati; grande industria dello shopping del “centro vetrina”; catene alberghiere e di ristorazione; proprietari di immobili che speculano su affitti a prezzi spropositati, influendo sul rialzo generale del costo della vita del centro storico e, di fatto, escludendo una fetta di popolazione dalla possibilità di “vivere” la propria città.

Insomma, la turistificazione di massa – che è bene ricordare non equivale al turismo tout court (anche se nel testo per semplicità a volte sono stati usati in maniera complementare), il quale invece ha spesso dato la possibilità di confronto tra generazioni, culture e modi di vita alternativi, oltre che supportare l’economia – non è altro che un altro strumento di cui si è dotato il Capitale per ottenere margini di profitto proprio lì dove la sua frenetica attività di auto-valorizzazione ha da sempre concentrato i suoi sforzi: la città.

 

 

5. “Roma città pubblica”, anche per il turismo

 

Anche uno scorrimento superficiale del testo proposto mette in rilievo una complessità e molteplicità di sfaccettature tutte riconducibili a un modello di città nella morsa di interessi privati, accomunati dalla necessità per garantirsi la sopravvivenza sociale di piegare alle proprie esigenze di valorizzazione il territorio. Una spirale di relazioni privatizzate che si abbatte sulla maggioranza della città che ne paga le conseguenze sia in termini di esclusione, di costi e di sostenibilità.

La turistificazione è espressione del modello neoliberista di appropriazione privatistica del territorio e concorre in maniera determinante alla prolificazione del “pantano di relazioni privatistiche” che zavorrano la città. La città Capitale impossibilitata a definire una prospettiva di crescita correlata ai bisogni della maggioranza dei suoi abitanti, confinati nelle vecchie e nuove periferie, comunità separate all’interno di uno stesso territorio urbano, sembra assolvere al solo compito esclusivo di contenitore di forza-lavoro spesso dequalificata in contesti di crescente abbandono.

Recuperare elementi di progettualità e programmazione pubblica è il passaggio obbligato per arginare la deriva degli interessi privati elevati a sistema che inesorabilmente soffoca il potenziale sociale, economico e produttivo della città capitale. Lavorare nelle contraddizioni dell’attuale modello di città per costruire un’ipotesi alternativa fondata sulla centralità degli interessi generali di cui solo la città pubblica può essere espressione non è questione esclusivamente vertenziale, ma richiama con forza la dimensione della rappresentanza politica, dei soggetti organizzati e dei referenti sociali.

Rendita finanziaria e immobiliare, turistificazione, rete dei servizi, sono alcuni dei luoghi in cui si è strutturato il blocco sociale di interessi che dominano la città, interessi privati che transitano da una sfera all’altra sotto il controllo ferreo del capitale finanziario transnazionale.

Allora, individuare alcune proposte idonee a costituire le basi per un possibile modello di città alternativo, intervenendo nelle contraddizioni su cui le diverse amministrazioni non hanno avuto forza, capacità, interesse di intervenire per invertire la tendenza, è un passo essenziale. I ragionamenti svolti intorno al fenomeno della turistificazione e all’accaparramento privatistico di valore nei flussi di massa nella metropoli, ci offrono lo spunto per alcune tracce di intervento.

  1. L’utilizzo della tassa di soggiorno per interventi mirati di riqualificazione in ambiti urbani periferici e degradati. Progetti individuati sulla scorta delle emergenze territoriali con certezza del finanziamento anche pluriennale, con una funzione attiva degli organismi territoriali dei cittadini.
  2. L’attivazione di una piattaforma digitale comunale e pubblica per la programmazione di soggiorni turistici nella capitale, l’individuazione e la proposta di itinerari tesi alla valorizzazione estesa del patrimonio, l’organizzazione del soggiorno per eventi di rilevanza cittadina a cui il Comune collega la propria immagine attraverso il patrocinio o in altra forma.
  3. L’individuazione nel patrimonio immobiliare in disuso di strutture idonee alla costruzione di strutture recettive alberghiere di proprietà comunale, orientate su un target giovanile idoneo per la costruzione di un progetto mirato ad offrire la frequentazione di Roma a più riprese. Ciò garantirebbe risorse pubbliche derivate dalla frequentazione della città e garantirebbe un effetto calmierante sulle dinamiche degli esorbitanti costi di soggiorno; nonché una politica di integrazione gestita dei flussi nel contesto metropolitano, contro il modello della gentrificazione, deriva del cosiddetto libero mercato.
  4. Incrementare la presenza di guide turistiche comunali da mettere a disposizione in forma gratuita per coloro che transiteranno attraverso il canale proposto dal servizio pubblico turistico.

Naturalmente, questi punti dovrebbero essere parti di un progetto organico di intervento pubblico, con una evidente valenza politica: riportare nelle mani degli abitanti quote di ricchezza sociale che il territorio della metropoli produce e da cui è espropriato.

6. Il turismo ai tempi del Covid-19

 

Configurare in maniera pressoché esclusiva un modello di sviluppo basato sulla turistificazione si è rivelata una scelta perdente, perché un’interruzione dei flussi può paralizzare un’economia, rendendo vana, qualora ci fosse stata, anche una programmazione di crescita e di sviluppo sul medio e lungo termine. Nel 2020 è stata la pandemia a colpire duro, ma si pensi alle incertezze dovute al cambiamento climatico o a situazioni di conflitto bellico, di attacchi terroristici, tutti elementi invero non poi così tanto lontani dalla realtà in cui siamo immersi ogni giorno, soprattutto alzando lo sguardo al bacino sud dell’area mediterranea.

Se questa era la nostra tesi, in pillole, esposta nelle precedenti pagine, crediamo che il terribile anno appena passato – soprattutto dal punto di vista umanitario – l’abbia confermata in pieno.

Il 29 dicembre l’Istat ha rilasciato la consueta nota sul “Movimento turistico in Italia”, e i dati sono impietosi.[43] Nei primi 9 mesi del 2020 il calo di presenze di turisti stranieri è stato del -68,6%, dato che si aggrava se circoscritto alle grandi città in cui sono venuto a mancare, sempre nel periodo gennaio-settembre, il 73,2% di turisti complessivi. Nel solo periodo estivo compreso tra luglio e settembre, quindi dopo la riapertura ai flussi interregionali, le presenze negli esercizi ricettivi sono complessivamente il 63,9% di quelle del 2019, soprattutto per il calo di arrivi oltreconfine, -60,3%, pari a 74,2 milioni di arrivi in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Una condizione d’altra parte condivisa nel resto del Continente, come stima l’Eurostat per l’Ue a 27, dove nei primi 8 mesi dell’anno registra un calo di oltre il 50% dei pernottamenti nell’area rispetto allo stesso periodo del 2019.

Da notare come la maggior flessione in termini relativi sia dovuta ai viaggi per motivo di lavoro, che registrano un decremento di oltre la metà degli spostamenti a confronto col 2019, soprattutto se legati ad attività congressuali, convegni o seminari (-81,3%) e a riunioni d’affari (-41,8%).

Ma fin qui si potrebbe obiettare, con alcune buone ragioni, che il 2020 è stato un annus horribilis, che una volta vaccinata la popolazione contro il virus, al netto delle varianti, riprenderanno gli spostamenti, i consumi e così anche la produzione, recuperando il perso – almeno dal punto di vista economico – durante la pandemia.

Da una parte, questo è solo parzialmente vero. Infatti, nel momento in cui si perde capacità produttiva o si interrompe un’attività, il rientro a regime non è una possibilità data per scontata, perché la ripresa ha un costo spesso non sostenibile da chi ha subito un’interruzione (soprattutto se prolungata e della gravità di quella a seguito del coronavirus), e inoltre quella fetta di mercato potrebbe o essere occupata da un’altra attività, o sparire direttamente dai consumi della popolazione, contraendo così la domanda aggregata.

Dall’altra, nella scelta di “convivenza con il virus” fatta dalla maggior parte delle democrazie liberali occidentali, anche nei momenti di massima pressione delle chiusure operati dai governi ci sono state una serie di attività ritenute, a volte torto, altre a ragione, essenziali che non hanno smesso di rimanere “aperte” e di continuare la produzione. Ebbene, in Italia tra queste nessuna – nessuna – fa riferimento al comparto del turismo. E ciò non è giustificabile col fatto che nell’attività turistica è implicito quel “contatto umano” che durante le fasi acute della pandemia è stato, o sarebbe stato, necessario limitare per evitare la diffusione del virus. Sono infatti note le foto degli assembramenti nelle fabbriche nel nord manufatturiero, o le denunce sulle oltre 70mila aziende che a inizio aprile avevano continuato la produzione approfittando della possibilità di andare in deroga al Dpcm del 22 marzo dell’allora Presidente del consiglio Giuseppe Conte tramite una semplice comunicazione alle Prefetture, difficilmente controllabili nel caos della situazione.

 

Figura 4 - Numero delle aziende in deroga all'8 aprile 2020 secondo la Prefettura.

La questione piuttosto è che il turismo non è un elemento trainante per un’economia avanzata, non costituisce un vantaggio competitivo, genera perlopiù lavoro poco qualificato, ossia poco pagato e instabile, perciò inadeguato a rappresentare quel sostegno alla domanda e al più generale ciclo economico se posto in alternativa per esempio al settore manifatturiero o al terziario avanzato, ben presenti (fin troppo!) nei codici Ateco 2007 della lista con le attività ritenute essenziali a inizio pandemia che hanno continuato a operare.

Questa, crediamo, una delle lezioni da imparare fin qui a seguito di questi durissimi mesi. Questa, in fondo, anche la tesi dei ricercatori della Banca d’Italia citata in apertura del lavoro, se scrostata di una certa ideologia dominante che impedisce di guardare ai fenomeni sociali – nella fattispecie di natura economica – con il giusto spirito critico.

Nella fase attuale, purtroppo, ne va anche del nostro portafogli e della nostra salute, così come per quelle dei nostri cari e della nostra comunità. In una battuta, della possibilità del vivir bien.[44]

 

 

 

 

 

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[1] Per una critica puntuale a questa visione, cfr. Sassen (20103), Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna.

[2] Bronzini, Ciani, Montaruli (2019), Tourism and local in growth in Italy, Banca d’Italia, p. 22.

[3] asp, Salvini, il turismo è il nostro petrolio, pronto decreto cantieri veloci, in «Agv», 20 febbraio 2019.

[4] Per gli autori, la produttività del lavoro è la condizione che garantisce crescita economica e benessere. Lontani dall’accettare la “trappola del produttivismo” come condizione ineludibile per l’aumento dei salari, sottolineiamo invece che «l’occupazione con produttività inferiore» a cui si fa riferimento è quell’occupazione che richiede meno competenze specifiche ed è perciò sia meno remunerata, sia meno tutelata, ossia più soggetta alla competizione (al ribasso) tra i lavoratori ed esposta all’alta precarietà lavorativa e di conseguenza sociale.

[5] Il contributo dato dall’interconnessione con altri settori, come l’acquisto di mobilio per arredare un albergo.

[6] Il Pil e l’occupazione attivati dalla spesa degli occupati direttamente o indirettamente dal comparto turistico.

[7] Bronzini, Ciani, Montaruli (2019), op.  cit., p. 9.

[8] Secondo l’Ocse, tra i paesi membri nel 2018 l’Italia è terz’ultima davanti solo a Grecia e Sudafrica.

[9] Al 2019, l’Italia è tra gli ultimi nell’Unione europea come investimenti in rapporto al Pil, 1,38% per poco di 24 miliardi di euro, di cui ben oltre la metà proviene dal (e sostiene il) settore privato.

[10] Questi sono i settori che, capitalsiticamente parlando, possono sostenere sul lungo termine la crescita economica di una nazione. L’ultimo esempio è dato dalla scontro Usa-Cina degli ultimi due anni: da una parte, gli Usa osteggiano in tutte le maniere, diplomatiche e meno, l’espansione della tecnologia 5G made in China, mentre dall’altra, nell’accordo siglato a metà gennaio, Trump, nella necessità di riequilibrare la bilancia commerciale, ha preteso da Pechino una maggiore importazione soprattutto di prodotti agricoli e manifatturieri (che rappresentano inoltre i settori dell’“America profonda”, stordita dalla globalizzazione, che lo ha portata alla Casa Bianca).

[11] Petrella et al. (2019), Turismo in Italia: numeri e potenziale di sviluppo, Banca d’Italia, pp. 16-20.

[12] Ivi, p.10.

[13] A seconda dei calcoli, tra la 75esima e l’85esima parte del Pil mondiale, poco più di un terzo dell’impatto della siderurgia del mondo, “solo” il doppio dell’automotive negli Stati uniti.

[14] Secondo la “Mice industry” (acronimo di meetings, incentives, conferences and events), il “turismo congressuale” si distingue per un livello di spesa media pro capite molto superiore rispetto ad altri comparti del turismo, con circa 560€ di spesa rispetto ai 102€ di un tradizionale turista in Italia (viaggio escluso). In questa speciale classifica, nel 2016 Roma si è piazzata al ventesimo posto con l’organizzazione di 96 eventi, la metà di quelli di Parigi, in testa alla classifica.

[15] L’eccezione de La Mecca si spiega con l’enorme flusso dei pellegrinaggi religiosi.

[16] Tra gli altri, cfr. Carchedi (1991), Frontiers of political economy, Verso, Londra, Regno unito, specialmente cap. 2.

[17] Per un’analisi recente sulle catene del valore, cfr. Vasapollo (2018), Piano, mercato e problemi della transizione, Edizioni Efesto, Roma., specialmente cap. 4; Cestes (a cura di, 2018), Il Commercio nella nuova catena del valore, in «Proteo. Annuali», 7, Edizioni Efesto, Roma.

[18] Tuttavia, il secondo sembra sopperire meglio alla mancanza del primo che non viceversa.

[19] Se così non fosse, non spiegheremmo le difficoltà italo-spagnole nell’uscire dal primo decennio post-crisi del 2008. Per le ragioni uguali e contrarie, non potremmo giustificare il ruolo assunto dalla Cina nel comparto.

[20] Le parole d’ordine impiegate da Federturismo (2018) sono una conferma di quanto appena scritto: «politica industriale, investimenti e innovazione, sostenibilità, riduzione delle barriere burocratiche, accessibilità e digitalizzazione, formazione e competenze specifiche, nuova governance del settore». Tra le scelte da bocciare invece trova spazio, non a caso, la «tassa di soggiorno», detta «antiturismo» (pp. 4-5).

[21] Santilli (2020), Italia divisa in due dalla Tav: Pil a +7% nelle città collegate. Cascetta: priorità a opere che spingono i punti di forza dell'economia italiana: aeroporti per il turismo, valichi per l'export, allargamento della rete Av, metro, in «Il sole 24 ore» del 30 gennaio.

[22] Per un confronto tra la politica economica dominante ancorata all’ideologia sviluppista e modelli economico-sociali alternativi, cfr. Vasapollo (a cura di, 2006), L’acqua scarseggia… ma la papera galleggia!, Jaca Book, Milano.

[23] AA.VV. (2007), Modello Roma. L’ambiguità moderna, Odradek, Roma.

[24] Per un approfondimento sul ruolo delle piattaforme digitali legato alla teoria del valore-lavoro, cfr. Srnicek (2017), Platform capitalism, Polity Press, Cambridge, Regno unito.

[25] Cfr. Zuboff (2019), The age of surveillance capitalism, Penguin Books, Londra, Regno unito.

[26] De Muro, Monni, Tridico (2011), Knowledge-based economy and social exclusion: shadow and light in the Roman socio-economic model, in «International Journal of Urban and Regional Research», 35(6), p. 1213.

[27] Questo modello è paragonabile allo sviluppo pensato per la città di Barcellona agli inizi degli anni Novanta, basato su edilizia, turismo e ampliamento del terzo settore. A cavallo del millennio, anche nella capitale catalana si è dato un ruolo specifico alla cultura come vettore della knowledge economy, dove il governo municipale ha cercato di fare fronte comune con le organizzazioni della società civile per modernizzare la città, cercando di coniugare la rigenerazione urbana con la redistribuzione della ricchezza e del potere decisionale. Tuttavia, il forte legame instaurato dal pubblico con il settore privato ha escluso dai benefici dello sviluppo una fetta consistente della popolazione, essendo i progetti concentrati soprattutto sulla capacità di attrarre domanda turistica e dando luogo a tutte le dinamiche di gentrificazione e proletarizzazione fin qui analizzate. Cfr. Degen, Garcia (2012), The transformation of the “Barcelona model”: an analysis of culture, urban regeneration and governance, in «International Journal of Urban and Regional Research», n. 9.

[28] Cfr. Martufi, Vasapollo (2006), Profit State, La città del sole, Napoli.

[29] Cfr. Arriola, Vasapollo (2005), L’uomo precario, Jaca Book, Milano.

[30] Roma Capitale (2018a), La struttura e l’evoluzione del mercato del lavoro nell’area romana.

[31] Roma Capitale (2020), Lavoro flessibile, part time e sottoccupazione a Roma. Anno 2018.

[32] Roma Capitale (2019), Le caratteristiche degli occupati a Roma. Anno 2018.

[33] Roma Capitale (2018a), op. cit., p. 5.

[34] Per una ricostruzione storica dell’ordoliberismo, soprattutto alla luce della letteratura giuridico-economica, cfr. Somma (2014), La dittatura dello spread, DeriveApprodi, Roma.

[35] Sbilanciamoci! (a cura di, 2012), L’economia romana e della provincia nella crisi 2008-2012.

[36] La crisi Alitalia infatti potrebbe avere un effetto pesantissimo sulla città, mettendo a rischio 9 mila posizioni di residenti a Roma.

[37] Roma e il Lazio sono in genere riconosciuti come la capitale del cinema, ma nella provincia romana si contano “solo” 17.000 impiegati nel settore, ben lontani dunque dai quasi 150 mila del commercio al dettaglio.

[38] Per terziario avanzato (altre volte detto quaternario) si intende la sottocategoria del settore terziario tipico della divisione classica di un’economia, in cui l’attività lavorativa si distingue per un elevato valore aggiunto al prodotto finale. Di base il lavoratore o la lavoratrice possiedono competenze semantiche e di manipolazione simbolica superiori alla media. Comparti di riferimento sono quelli dello spettacolo, della comunicazione e in genere della cultura, della consulenza aziendale e per il governo d’impresa delle istituzioni, dei servizi informatici legati al web e all’innovazione tecnologica.

[39] Per una breve riflessione sul contenzioso giuridico sviluppatosi contro il Jobs act anche all’interno dell’istituzioni dell’Ue, cfr. Perri (2020), Anche il Ceds contro il Jobs act, ma il ripristino dell’art. 18 rimane lontano, in «Contropiano.org» del 22 febbraio.

[40] Roma Capitale (2018b), Il reddito dei romani.

[41] Secondo il “Traffic congestion ranking” redatto da TomTom, Roma è la 43esima città al mondo per intasamento da traffico delle proprie strade, una posizione subito alle spalle Parigi. A questo proposito, c’è da sottolineare che se calcoliamo solo la “Roma dentro il Gra” (e non la “città metropolitana”), la capitale italiana è grande ben 12 volte Parigi (che è costituita solo dal territorio interno al peripherique) e ha una densità abitativa 10 volte inferiore. Questo è importante perché l’indice di TomTom è calcolato sui rilievi che il Gps rimanda all’azienda circa il tempo medio di percorrenza di una data tratta a un dato orario, raccolti sul tutto il territorio riconosciuto come appartenente alla città. Questo vuol dire che il risultato molto simile ottenuto da Roma rispetto a Parigi è ricavato su un territorio 12 volte più espanso, e che deve essere però la media tra le zone meno e quelle più densamente abitate: ciò indica che queste ultime devono “recuperare” terreno rispetto alla concorrenza, presentandosi come degli autentici “tappi di ferraglia e smog”. Per il Traffic index, https://www.tomtom.com/en_gb/traffic-index/ranking/.

[42] Basta leggere la lista dei partecipanti alle commissioni annuali dell’“International Business Advisory Council” (Ibac), nate durante la giunta Alemanno, ai cui lavori partecipano amministratori delegati, imprenditori e top manager delle principali aziende multinazionali con lo scopo di imporre la propria visione del mondo sulla città e sugli abitanti.

[43] Istat (2020), Movimento turistico in Italia. 2020

[44] Vasapollo, Cabrera Albert (a cura di, 2013), Vivir bien o muerte!, Datanews, Roma.

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