“La comunicazione deviante”: lavoro mentale e capitale intellettuale omologato. Un approccio didattico formativo.
Lucia Donat Cattin
La comunicazione è argomento di studio in molte scuole, soprattutto nell’ordine delle scuole secondarie. Tipicamente essa viene distinta in “comunicazione interpersonale” e “di massa”, dove per “di massa” si intende la comunicazione che si avvale dei vecchi media (comunicazione uno-molti) e dei nuovi media (comunicazione molti-molti). L’evoluzione della comunicazione di massa e dei mass-media viene spesso narrata come il prodotto dello sviluppo industriale e della società di massa nata nel ‘900, ma senza che mai ci si chieda in che modo essa si intrecci con la struttura economica del capitalismo e come ne sia effetto e motore insieme. Al massimo, i testi scolastici ci dicono che la comunicazione di massa ha un ruolo nella creazione dell’homo consumens, usando un’espressione di Bauman[1] che va oggi molto di moda. Anche negli indirizzi scolastici dove la comunicazione non è oggetto diretto di studio, essa pervade la quotidianità di docenti e studenti, perché viene inserita nei programmi di Storia e di Italiano, come di Lingue straniere e a causa della presenza costante dei device e della rete, sia perché ogni studente e quasi ogni docente ha almeno uno smartphone, quando non un tablet o un portatile che usa a scuola, sia perché le stesse scuole hanno oggi una strumentazione che facilita l’uso della comunicazione uno-molti e molti-molti (LIM, PC connessi in rete, tablet, laboratori informatici). Nei fatti la comunicazione influenza in modo massiccio le nostre vite di docenti e studenti, al punto da rendere difficile lo sviluppo di una consapevolezza della sua reale natura e degli scopi che sottende. Non va poi dimenticato che il sistema di istruzione italiano, su precisa indicazione UE, negli ultimi anni ha investito molto nella informatizzazione delle scuole e nella formazione dei docenti all’utilizzo della telematica, della multimedialità, degli strumenti informatici.[2] Questo, lo vedremo, non è un caso e nemmeno il semplice frutto della voglia di innovare e “ammodernare” le scuole e la didattica, ma la parte di un processo strutturato in cui anche la scuola viene messa a mercato e prende parte ad un processo preciso di trasformazione sociale.
Il tentativo del libro di Vasapollo e Martufi, Comunicazione deviante. Gorilla Ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore, Edizioni Efesto[3] è quello di spiegare con la maggior chiarezza possibile il rapporto tra quella che nel testo è chiamata senza mezzi termini “comunicazione deviante” e il cosiddetto capitalismo maturo. Il testo, da leggere assolutamente con il Prologo alla nuova edizione e l’importante prefazione alla prima edizione di Alessandro Mazzone, cerca di dare gli strumenti per comprendere quale funzione ben più profonda e essenziale abbia la comunicazione nel sistema capitalistico, rispetto alla semplice velocizzazione del flusso informativo e commerciale. Vi troviamo il tentativo di fornire strumenti di lettura per comprenderne la funzione essenziale nell’ultima forma assunta dal modo di produzione capitalistico. In questo senso il testo, seppur non di facile lettura, può essere un utile strumento didattico e dare ad una classe quinta del secondo ciclo di istruzione o a degli studenti universitari nuove prospettive di lettura di una dimensione quotidiana e pervasiva delle loro vite. Il testo può anche essere utilizzato per preparare lezioni e interventi con classi “più basse”, ma in quel caso crediamo debba essere rielaborato in grossa parte dal docente ed usato solo in parte, perché la complessità dei riferimenti che lo caratterizzano è tale da non consentirne l’uso integrale con studenti degli anni precedenti all’ultimo del secondo ciclo.
Volutamente nel testo la comunicazione non è definita in modo classico come “comunicazione di massa”, o “sociale”, ma nemmeno si parla semplicemente e solo di “comunicazione aziendale”, che pure è una parte essenziale della comunicazione odierna. Secondo gli autori la comunicazione, la gestione delle informazioni e la loro diffusione è, in effetti, un elemento centrale del sistema economico capitalistico e come tale, seppur abbia una natura “aziendale” nella sua origine, arriva ad informare di sé ogni aspetto della società e della vita delle persone che la compongono, pervadendo il quotidiano, sia nella dimensione lavorativa (e dunque di sfruttamento) che in quella privata (e dunque in grossa parte di consumo).
La comunicazione è definita dagli autori deviata e deviante, questo è sicuramente un primo aspetto su cui far discutere gli studenti, permettendo loro di esprimere ipotesi sul perché gli autori la definiscano in questo modo fin dal titolo. Come sempre nel lavoro didattico, le ipotesi formulate all’inizio del percorso è opportuno che vengano conservate fino alla conclusione, per poi verificare quanto corrispondano a quanto appreso e maturato nel corso del lavoro stesso. Sarà poi il docente, prima di approcciare direttamente il testo, a spiegare, a partire dalle intuizioni degli studenti, che sicuramente emergeranno, che essa è deviata perché ormai lontana dal suo scopo precipuo di mettere in comune le informazioni e di far circolare idee, scoperte, opinioni e deviante perché il suo solo scopo, è questa la tesi di fondo del volume da tenere sempre presente, è quello di essere al servizio del sistema economico capitalistico e del profitto delle imprese. Essa serve ad imporre un modello economico e una visione aziendalista alla società tutta, che oggi è in qualche modo una “fabbrica diffusa”, sia nel senso che il lavoro è uscito dalle mura della fabbrica, frammentandosi in mille rivoli di lavori atipici e precari, sia perché la logica di comando, sfruttamento e potere della fabbrica, è uscita dalle imprese, per mezzo della comunicazione, invadendo la vita quotidiana e la dimensione privata di ognuno, ampliando nei fatti a dismisura lo spazio di controllo del sistema capitalistico sulle nostre vite.
Il fatto che il sistema di produzione capitalistico tenda a organizzare e gestire la società tutta come un’azienda non è una novità del cosiddetto “postfordismo”, fa parte della natura stessa del capitalismo, che trasmette la struttura stessa dei rapporti di produzione che lo caratterizzano a tutti gli aspetti sovrastrutturali del sistema sociale,[4] ma questa tendenza è fortemente accentuata in questa fase postfordista appunto (sempre che definire post- una fase storica ci dica qualcosa sulla sua vera natura – in effetti lo fa: ci dice che nemmeno chi vorrebbe guidarla, sa bene come definirla), che corrisponde in realtà alla trasformazione della modalità fordista di produzione capitalistica in quella che nel testo viene definita la fabbrica diffusa. È chiaro che, ove questa terminologia non sia chiara o non sia ancora a disposizione degli studenti, sta al docente renderla per loro fruibile e comprensibile (differenza tra grande fabbrica e fabbrica diffusa, precarizzazione, flessibilizzazione della forza lavoro, con il conseguente “spezzatino lavorativo” e sociale…). Il che può avvenire in due modi: chiarendola passo passo, quando la si incontra, o pensando ad una lezione introduttiva che metta a loro disposizione terminologie e passaggi storici essenziali (seconda rivoluzione industriale, crisi del ’29, Guerre mondiali, ricostruzione del secondo dopoguerra, crisi degli anni ’70, fordismo, taylorismo, operaio massa…). Per quanto si tratti di passaggi non semplici, essi possono, a nostro parere, essere declinati a livelli diversi di complessità e approfondimento, a seconda della classe che abbiamo davanti. La didattizzazione dei nodi tematici, è d’altronde uno dei compiti essenziali per un docente. E per didattizzazione dobbiamo proprio intendere la capacità di rendere comprensibili e fruibili passaggi e costrutti anche complessi, in una dimensione adatta al livello e all’età dei nostri studenti, nella convinzione che non vi siano argomenti troppo complessi, ma al massimo incapacità di declinarli e sottovalutazione dei tempi di apprendimento e sedimentazione.
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Per quanto riguarda il testo in sé, ci sembra ci siano due chiavi essenziali per farne un uso didattico. Da un lato vanno chiariti alcuni costrutti, essenziali dal punto di vista economico e sociologico, che si nascondo dietro l’uso di taluni termini ed espressioni. Dall’altro vanno individuate almeno cinque questioni essenziali, una per capitolo del libro, con alcuni corollari, che cercheremo di indicare brevemente nel prosieguo di queste note. Il modo in cui trattarli sta alla sensibilità e alle caratteristiche del docente, a parte alcune indicazioni di fondo. A seconda del proprio stile didattico, si può scegliere di leggere brani del testo coi ragazzi, di discuterli dopo una lettura personale, di affrontarne i temi prima di leggerne i capitoli, di leggerne passi e chiarire con schemi e mappe le connessioni tra essi. Si può procedere per via induttiva, partendo da quanto i ragazzi capiscono (anche se la difficoltà del testo, lo rende arduo), o per via deduttiva. A nostro parere la cosa migliore è leggere i passaggi centrali in classe, assegnando a casa la lettura del resto e partire nell’analisi in classe da domande preparate dal docente, che seguano la scansione dell’argomentazione, ma si tratta, va detto, di preferenze personali.
In generale ci sembra che vi siano alcuni concetti chiave che ricorrono all’interno del libro, che è necessario chiarire, in un’ottica didattica. In primo luogo è importante aiutare gli studenti a comprendere cosa si intende oggi per lavoratore cognitivo, definito nel testo anche come “cognitariato”;[5] in secondo luogo vanno chiariti quali trasformazioni abbia subito il processo di produzione capitalistico con la crisi del fordismo e il passaggio a quello che a scuola viene definito “post-fordismo”, che forse è più corretto chiamare sistema di “accumulazione flessibile”. Per fare questo è evidente che gli studenti coinvolti dovranno conoscere i costrutti di fondo del pensiero di Marx; conoscere, seppur in termini semplificati, il meccanismo di creazione del plusvalore; il rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura culturale, invece, dovrà essere padroneggiato per poter comprendere a fondo il ruolo della comunicazione nel mondo attuale. Sarà inoltre necessario chiarire cosa si intende per “fabbrica sociale generalizzata” o “impresa diffusa”,[6] per arrivare a definire con chiarezza perché la comunicazione oggi è deviata e deviante.
Chiariti questi termini e costrutti teorici chiave del testo, crediamo sia importante individuare i nuclei essenziali dell’argomentazione, che per semplicità si possono suddividere secondo la scansione dei capitoli, così come l’hanno pensata gli stessi autori. Il primo capitolo del testo, intitolato Le risorse del capitale dell’astrazione e i modelli comunicazionali nella nuova catena del valore, ci parla delle “risorse del capitale dell’astrazione” e di “nuova catena del valore”. Questi termini si collegano al cosiddetto “capitale informazione” che è elemento essenziale delle forme assunte oggi dalla produzione capitalistica. Premessa a questo discorso è la definizione di “accumulazione flessibile”: quella forma del modo di produzione capitalistico, per cui la tendenza alla riduzione del saggio di profitto a fronte e di un aumento dei profitti stessi, individuata con chiarezza già da Marx, ma oggi accentuata dalla dimensione globale ed estremamente veloce della rotazione dei capitali, viene combattuta attraverso la riduzione costante alla disoccupazione semi permanente o ad occupazione precaria di gran parte della forza lavoro, cui ricorrere solo al momento dell’uso, così come si fa coi mezzi di produzione o il denaro. Nella sostanza, la precarizzazione di grandi masse di lavoratori è condizione necessaria alla sopravvivenza del capitalismo in questa fase storica. In questo contesto, la comunicazione aziendale, le tecniche manageriali, il marketing in ogni sua forma sono elementi essenziali per far passare come “naturali” disoccupazione, sotto-occupazione e precarietà permanente. Peraltro il modello comunicativo delle aziende si espande alla comunicazione tutta, per cui anche quella comunicazione non direttamente finalizzata alla commercializzazione dei prodotti o alla definizione di una cultura aziendale, ne assume le forme, i valori, i contenuti, rendendo realmente la società una enorme fabbrica diffusa. Meccanismo che ben si combina con le necessità del capitale di delocalizzare, terziarizzare, frammentare il processo produttivo. Si pensi alla vicenda del cosiddetto “smart work”, presentato come la soluzione rispetto alla gestione dei tempi di lavoro e di cura, soprattutto per le donne (sigh!), in realtà modello di assoluta precarietà lavorativa e contrattuale.
In questo senso il capitale informazione, fatto delle componenti che compongono la cosiddetta risorsa umana, ovvero il lavoratore più o meno specializzato e preparato, della cultura aziendale, del patrimonio di relazioni, ovvero il cosiddetto “capitale sociale”, diviene la risorsa intangibile e chiave del modello dell’accumulazione flessibile, lo diventa così tanto che è ormai alla portata di tutti la consapevolezza che non solo ci sono persone che lavorano sui dati e coi dati relativi agli utenti della rete e che in rete si possono raccogliere, producendo dunque valore su questi dati, ovvero su questa conoscenza, ma che addirittura noi stessi coi nostri comportamenti non solo da consumatori (acquistando on line), ma anche semplicemente operando ricerche, mettendo like, scegliendo certi film, serie TV, postando foto di luoghi che ci sono piaciuti (per fare solo alcuni esempi) forniamo gratuitamente dati alle imprese che li leggono, li elaborano, li utilizzano o li rivendono a quelle che li usano, per incrementare i loro profitti, producendo così plusvalore. È un po’ come se si ottenesse gratis la materia prima per un prodotto, come se l’acciaio per produrre delle pentole o la plastica per un contenitore lo avessimo gratis e non pagandolo. Questa è infatti ben altro rispetto ad una banale questione di privacy o gestione più o meno corretta dei dati, è invece la forma estrema dell’estrazione del plusvalore che la società capitalistica ha assunto. In qualche modo in questo processo siamo insieme e spesso simultaneamente produttori e consumatori, sfruttati e flessibilizzati in ogni momento del vivere sociale.
Questa situazione ha l’effetto per nulla secondario di rendere più produttivi gli investimenti in tecnologia per l’informazione che in macchinari che producono beni materiali, andando ad incrementare quel processo di dematerializzazione della produzione, di terziarizzazione che in realtà è una delle basi della diminuzione del saggio di profitto e quindi della profonda crisi sistemica in cui il capitale è immerso, con le conseguenze che ben conosciamo sulle vite di ognuno di noi. Anche in questo caso la terminologia, quando non fosse ancora padroneggiata dagli studenti, andrà chiarita. Esplicitare questi collegamenti tra la struttura dei rapporti economici e tematiche, come quella del ruolo del terziario nella nostra economia, che spesso sono affrontate in aula per mezzo di letture stereotipate e mainstream, in modo superficiale, sterilizzato e falsamente neutrale, è importante, per ricollegare la teoria alla quotidianità che ognuno vive.
Ecco allora un primo senso in cui la comunicazione oggi è deviante: “perché completamente assoggettata alla mentalità e produzione, dello scambio e del profitto della politica economica attuale e, quindi, sta sostituendo la funzione fino ad ora svolta dal ‘progresso’. In tuti i settori e in tutte le istituzioni la parola d’ordine è diventata comunicare efficienza e competitività, le idee guida del potere capitalistico”.[7] Se nella fase fordista il progresso è stato la linea guida del capitalismo, oggi è la capacità di comunicare a svolgere tale compito.
Un’altra questione che è importante collegare alla struttura economica della società è come questo meccanismo favorisca quel processo di caduta dei rapporti sociali, di cui tanti si lamentano e di cui tanti rimproverano paternalisticamente le nuove generazioni, senza però avere il coraggio di capire da dove origini realmente e senza rendersi conto che la caduta delle relazioni, anche politiche, la vera e propria negazione della politica, per essere più espliciti, ha origine nel sistema di produzione capitalistico e ad esso è funzionale. Se comunicare serve a diffondere un modello economico di sfruttamento estremo e la cultura ad esso collegata, allora diventerà estremamente difficile più costruire relazioni reali, tanto meno relazioni politiche. Questa è la lettura più strutturale e gravida di conseguenze e riflessioni della funzione che per queste generazioni hanno lo smartphone, i social e i vari servizi di chatting.
Infine, bisogna a tal proposito sottolineare un ultimo aspetto: come la comunicazione serva anche a fingere un coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali delle aziende, coinvolgimento superficiale ed ininfluente, che rimanda però alle classi subordinate la sensazione di essere dentro una gestione più democratica dei luoghi di lavoro, quando in realtà siamo di fronte ad un accentuarsi della logica di dominio, che arriva a toccare ogni ambito della vita associata. Detto fuori dai denti, poco importa se su tematiche collaterali ed ininfluenti è necessario lasciare ai lavoratori qualche contentino, purché su quelle essenziali, relative ai tempi di lavoro, al salario, ai diritti essi siano asserviti. Così faranno farò più fatica a rendersi conto di quali siano i loro reali livelli di sfruttamento e di quanto lo siano in innumerevoli ambiti della loro vita.
Abbiamo già sviscerato alcuni passaggi importanti del secondo capitolo del libro, I modi di essere della conoscenza nella nuova catena del valore: comunicazione deviata e deviante e i suoi effetti sul corpo sociale, ma va sottolineato come qui venga analizzata la comunicazione deviata e deviante nella sua dimensione di comunicazione esterna e interna. In questo senso, un ruolo centrale lo svolge la comunicazione deviante esterna, che, oltre a permettere l’affermarsi del nome e della fama dell’azienda presso i consumatori, permette, interagendo con tutti gli attori economici che sono in relazione con l’azienda, dai mercati dei capitali alla pubblica amministrazione, di estendere la mentalità aziendale all’esterno e di diffondere i valori dell’impesa nella società, interagendo costantemente coi vari operatori “in chiave coercitiva diretta e indiretta, distruggendo l’etica del vivere sociale, determinando un contesto di svuotamento della democrazia attraverso la negazione della politica”,[8] come dicevamo poco sopra. Questo processo, ecco il secondo passaggio chiave da chiarire con gli studenti, porta a costituire lo Stato-impresa sul modello dell’entità-azienda. Uno Stato che non guarda al cittadino, ma alle imprese appunto, a chi ha come scopo precipuo il fare profitto, usando gruppi di pubblico che possano essere interlocutori privilegiati in tal senso (potere politico locale, consulenti e intermediari, managers…), quei soggetti che costituiscono il cosiddetto “capitale intellettuale” omologato, o, per dirla con semplicità, soggetti qualificati, formati e colti, che, più o meno consapevolmente, assecondano il processo di costituzione della fabbrica diffusa. Questa è anche la comunicazione che si rivolge al cittadino-consumatore e non lavoratore (questo è un chiarimento categoriale essenziale per degli studenti, la distinzione tra consumatore e lavoratore), per renderlo complice di quei processi che gli stanno togliendo tutti i diritti in quanto lavoratore. È poi possibile distinguere le diverse forme della comunicazione esterna deviante (quella organizzativa, quella finanziaria e così via), che condividono lo stesso scopo, lavorando su “target” e piani differenti e quindi mettendo in campo molteplici e differenti tattiche, che perseguono un’unica strategia. Qui sarà anche possibile iniziare a inquadrare quale ruolo abbiano la scuola e la formazione in tutto questo, come luoghi di preparazione e formazione del cittadino lavoratore flessibile e consumatore, in modo da iniziare a chiarire perché la comunicazione ha acquisito l’importanza che acquisito negli ultimi 20 anni e come mai il sistema di istruzione formazione abbia investito così tanto nella strumentazione ICT.
In questo modo, come ribadito nel terzo capitolo, Processi decisori e sistemi di dominio della conoscenza come modello del vivere sociale dell’impero del capitale, le logiche del capitale invadono ogni ambito, dal lavoro al tempo libero. La povertà, l’insuccesso, la difficoltà tornano ad essere colpe come agli albori del capitalismo e il tempo libero, come quello investito in crescita culturale, va uniformato alla logica della merce. In questo modo la comunicazione deviante può essere definita come “nomade”, altro concetto da chiarire bene con gli studenti, perché mondializzata e pervasiva, svuotata di senso e trasformata in merce che comunica altre merci. L’atomizzazione dell’individuo è frutto di questo meccanismo ed è funzionale alle classi dominanti. La solitudine dell’uomo globalizzato non è una vicenda sociologica legata alla fluidificazione dei rapporti sociali, è invece un elemento essenziale del lavoratore di questa fase del capitalismo, perché possa essere funzionale fino in fondo. Siamo sempre connessi e sempre più soli, non perché non in grado di usare in modo consapevole le nuove tecnologie, come vuole la vulgata educativa, ma perché attraverso di esser diveniamo elementi di questo processo comunicativo deviato e deviante globale, che ci atomizza e isola, rendendoci più sfruttabili e flessibili (qualcuno dice appunto: uno vale uno). Chiarire questi passaggi può essere rivelatore per gli studenti, che mal sopportano il tono paternalistico di certi discorsi sui device elettronici e la rete. Questa spiegazione che disvela la struttura fondata sullo sfruttamento di un fenomeno all’apparenza culturale, può smontare o illuminare le spiegazioni più mainstream, di stampo sociologico e culturale dell’atomizzazione e può diventare una chiave di lettura nuova di fenomeni che la scuola ha scoperto da un po’, come ad esempio gli hikkimori, il cyberbullismo, o la dipendenza da giochi in rete.
Nel quarto capitolo, Nuova catena del valore e dominio tecnosociale, ha un ruolo di rilievo il concetto di egemonia gramscianamente inteso, che viene introdotto anche nella prefazione. Quello che la comunicazione ha contribuito e contribuisce a costruire è un’egemonia delle classi dominanti, che però oggi, questo è l’elemento nuovo, appare in crisi. Appare in crisi, perché nonostante la sua pervasività, nonostante la cultura d’impresa sia entrata prepotentemente nelle singole vite, nei contesti culturali, nei contesti formativi e in quelli sociali, le condizioni complessive della popolazione peggiorano e questo può dare la possibilità ai soggetti critici di costruire una contro-egemonia, un modello differente di lettura e interpretazione della realtà, a partire anche da quanto ci siamo detti fino ad ora. Questo elemento di critica in prospettiva è essenziale, perché gli studenti hanno bisogno anche di proposte, non solo di analisi della fase storica in cui sono immersi, che peraltro non è promettente, per quanto precisa e realistica. Il punto da chiarire non è solo come sottrarsi a questi meccanismi, ma come costruire le condizioni per metterli in crisi e sostituirli. In termini marxisti, si tratta di capire come si possono ricomporre gli interessi di classe. Come, di fronte ad una frammentazione della classe, che è contraltare della concentrazione di capitali, è possibile trovare meccanismi per riallacciare le relazioni politiche e combattere la fabbrica sociale diffusa che distrugge vite, società e culture. Questo discorso, non ci illudiamo, sarà un discorso di pochi docenti e si contrapporrà ad una narrazione diffusa assolutamente soggiogata, a volte senza la consapevolezza di esserlo, dal modello dell’accumulazione flessibile e dai suoi riflessi culturali, con gli addentellati europeisti e schiettamente anti-marxisti. D’altronde quasi 40 anni di “pensiero unico” non si cancellano, ma si può costruire una contro-informazione e una contro-formazione, che si basi sulla credibilità delle analisi e dei soggetti che le portano, soprattutto se soggetti che formano.
Il ruolo essenziale della comunicazione dal punto di vista dell’economia capitalista viene chiarito più in profondità, mostrando come la comunicazione sia strettamente intrecciata all’uso massiccio di tecnologie a base informatica, che sono insieme elemento essenziale del successo e della crisi di questo modello, perché estromettono il lavoro umano dalla produzione e quindi diminuiscono sul lungo periodo la produzione di plusvalore: quella comunicazione che porta il modello aziendale capitalistico a pervadere ogni aspetto del sociale, lo distrugge anche dall’interno, estromettendo il lavoro umano dalla produzione e trasformando addirittura la produzione in produzione di informazione, di un bene intangibile che non produce ricchezza reale. Questa è la vera essenza del neoliberismo postfordista cioè dell’attuale fase della mondializzazione capitalista, genericamente e con un approccio approssimativo, identificata come globalizzazione che trasforma il talento umano in capitale umano, cioè un lavoratore immateriale del lavoro mentale come capitale intellettuale omologato e lo flessibilizza a livelli estremi. Questo è il contraltare nei paesi centrali, a capitalismo avanzato, dell’impoverimento delle popolazioni dei paesi periferici. In questo senso si possono rileggere in modo differente coi ragazzi, il processo neocolonialista, le questioni terzomondiste e l’attuale emersione di nuove potenze.
Nel quinto capitolo, infine, Il totalitarismo della comunicazione strategica deviante e il ruolo del capitale intellettuale omologato, si sottolinea il ruolo del capitale intellettuale omologato, ovvero di quelle classi sociali che hanno ruoli decisionali o semidecisionali nel sistema e che ne assecondano le logiche. Chi, seppur in posizione avvantaggiata, rispetto ai lavoratori più subordinati, avalla questo sistema e non sa utilizzare la sua preparazione per metterlo in discussione, ne è comunque schiacciato. Questa ultima considerazione è centrale da chiarire con gli studenti, per poter fornire loro gli strumenti critici rispetto a una formazione scolastica ed universitaria che sappiamo oggi quasi completamente assoggettata a questo modello di fabbrica sociale generalizzata, che non produce ricchezza, se non per pochissimi, né cultura indipendente (per nessuno in questo caso) e non migliora le condizioni di vita della maggioranza della popolazione.
In questo senso è possibile utilizzare le analisi contenute nel libro per costruire una consapevolezza che permetta agli studenti di “usare” la loro formazione come arma per rifiutare questo sistema e lavorare a costruirne un altro, nella consapevolezza che questo sistema, così concepito è oggi in enorme crisi e per questo si manifesta in modo ancor più evidente e assolutistico. Il titolo dell’ultimo capitolo, ci permettiamo una notazione a margine, può peraltro costituire lo spunto per un approfondimento del concetto di totalitarismo, abusato nei libri di storia, e le sua critica e un collegamento con la storia politica del Novecento.
[1]Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erikson, 2007.
[2]Un esempio, tra i molti citabili, il recente Piano Nazionale per la Scuola Digitale, consultabile a questo link: chrome-extension://oemmndcbldboiebfnladdacbdfmadadm/http://www.istruzione.it/scuola_digitale/allegati/Materiali/pnsd-layout-30.10-WEB.pdf.
[3]In questo articolo si farà sempre riferimento alla seconda edizione del volume, uscita nel 2018.
[4]A tal proposito ci limitiamo a citare, ad esempio, quanto affermano Nanni Balestrini e Primo Moroni ne L’orda d’oro, a proposito del sistema fordista e della sua tendenza a “organizzare, a ‘pianificare’ come un’azienda produttiva” la società, riferendosi agli anni Cinquanta del Novecento (L’orda d’oro 1968 – 1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, poltica esizntenziale, Universale Economica Feltrinelli, 2003 [II^ ed.] p. 40).
[5]Comunicazione deviante. Gorilla ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore, L. Vasapollo e R. Martufi, Edizioni Efesto, 2018, pag. 11.
[6]Op. cit. pag. 112
[7]Op. Cit. p. 137.
[8]Op cit., p 162.